“Ci dominate per il nostro bene” disse con un filo di voce. “Credete che gli esseri umani non siano adatti a governarsi da soli, perciò…”
-George Orwell, 1984
Si può dire, in fondo, che il motto del liberalismo sia “vivere pericolosamente”. Vale a dire che gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo o, meglio, che sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire, ecc., come fattori di pericolo… Si pensi, ad esempio, alla campagna sulle casse di risparmio dell’inizio del XIX secolo, alla comparsa della letteratura poliziesca e dell’interesse giornalistico per il crimine a partire dalla metà del XIX secolo, si pensi a tutte le campagne riguardanti la malattia e l’igiene, si consideri tutto ciò che accade intorno alla sessualità e alla paura delle degenerazione: degenerazione dell’individuo, della famiglia, della razza, della specie umana; insomma dappertutto si può vedere questa stimolazione del timore del pericolo, che è in qualche modo la condizione, il correlativo – psicologico, culturale, interno – del liberalismo. Niente liberalismo senza cultura del pericolo… Libertà economica, liberalismo nel senso che ho appena detto, e tecniche disciplinari sono strettamente connesse
-Michel Foucault, La questione del liberalismo
E poi bisognerebbe riflettere su quelli che, incapaci (a loro merito) di stare nell’ossessivo discorso maggioritario, ma drasticamente privi di strumenti critici, sono caduti (a loro rischio) in alter-narrazioni tossiche. Non sorprende, d’altronde, che dopo decenni di banalizzazione della lingua, di colonizzazione dell’immaginario e di guerra alla complessità, le più sciape storie dell’orrore possano suonare credibili. Da un certo punto di vista, questi nuovi “credenti” rappresentano una catastrofe e una fatica di Sisifo per chi, oltre a non stare nella narrazione maggioritaria, deve poi anche smarcarsi da questa galassia. Ma c’è qualcosa che va osservato e, se possibile, contattato: la qualità umana di chi trova così atroce quel che va accadendo, da ipotizzare che possa esser giustificato solo da qualcosa di altrettanto atroce
-Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni, Come siamo arrivati fin qui? Il contagio di un’idea di salute
Di fronte a tutto questo, non c’era da stupirsi che nascessero fantasie di complotto. C’era da stupirsi che non ne nascessero anche di più
-Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. Qanon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema
The Great Reset: un libro per tutti e per nessuno
Si è fatto un gran parlare, da qualche tempo a questa parte, di un testo dal titolo The Great Reset, apparso principalmente sul web (comunque anche disponibile in versione cartacea, per i temerari che volessero procurarselo). Il libro, che – come si intuisce dal titolo – vorrebbe proporre suggerimenti per un reset del mondo, dopo la cosiddetta pandemia, è disponibile qui, only in english ovviamente, come la maggior parte di questo tipo di testi – cosa che pone già un limite alla possibile utenza.
Le reazioni a questa pubblicazione sono state, come immaginabile, le più varie: dal grido di allarme di chi ci leggeva una sorta di manuale di istruzioni per l’istituzione di una società post-covid “iper-orwelliana”,1 a chi ne tesse gli elogi, trovandolo equilibrato e foriero di valide proposte per un futuro “sostenibile” – per usare una delle parole magiche del momento.2
Ma come nasce questo testo, chi l’ha scritto, quando e perché? Cosa dice nel dettaglio?3
Per rispondere a queste domande, e visto che spesso se ne parla solo per sentito dire, ci siamo presi la briga di leggerlo, e abbiamo pensato di riportare in queste poche pagine una sintesi dei punti salienti, più alcune nostre ovviamente non vincolanti impressioni. Premetto che la “sintesi” non sarà brevissima come inizialmente sperato, per cui pregherei il coraggioso lettore o la coraggiosa lettrice, che vorranno avventurarsi nella lettura, di armarsi di un po’ di pazienza.