Film da non vedere: “C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi

Recensioni entusiaste, elogi sperticati di amiche ed amici, voci che rimbalzano per ogni dove… siamo incuriositi a tal punto che ci siamo decisi: andiamo anche noi a vedere questo mitico film, quello della Cortellesi, “di cui tutti parlano”.
“Fusse che fusse…” e ci trovassimo di fronte ad un film che rompe gli schemi ed esce finalmente dai binari del conformismo lecchino e complice, della commediola soporifera e vuota e della soap opera inguardabile e avvilente che intasano i nostri schermi. Andiamo, dunque! Il cinema è persino a cinquecento metri da casa, tutto torna, gli dèi sono con noi, sarà un film bellissimo (o almeno interessante).
Passano due ore (qualcosa in più, a causa del martellamento pubblicitario che precede il film, che non ci molla neanche in questa occasione, figuriamoci…) ed eccoci fuori. Cos’è successo nel frattempo? Se può interessare, ecco le nostre impressioni:

Innanzitutto, ‘sto marito che la “corca de bbotte” (per restare al romanesco del film) ci appare subito un po’ troppo marcato. Sicuramente è stato delineato con questi tratti forti perché deve soprattutto rappresentare una sorta di archetipo del maschio patriarca, e simboleggiare un mondo di soprusi intollerabili. Tuttavia questa figura così fortemente caratterizzata rischia di far svanire molte sfumature del dominio patriarcale in famiglia, spesso molto più sottili di una salva di volgari legnate, ma non per questo meno dolorose. Nonché di assolvere a priori la soggettività femminile che invece, spesso, nelle famiglie ha contribuito attivamente a rendere la vita di casa un piccolo inferno (per esempio, accettando senza reagire lo stato di fatto, e anzi mettendoci del proprio) – anche se di solito in modo diverso dal temibile patriarca. Delia/Paola Cortellesi non sfugge a questa regola e, pur prendendole di santa ragione, per di più facendo una vita da schiava, sopporta tutto con santa rassegnazione e riproduce più o meno volentieri la ben poco gratificante routine familiare. Soprattutto, sembra di capire, lo fa per “il bene” dei figli, e comunque questo è il suo destino, come quello delle sue vicine di casa e di tutte le donne – quale sia la classe sociale – con le quali ha a che fare, e così sia: “il matrimonio è per sempre”, come dice preoccupata alla figlia, quando si accorge che questa rischia di fare la sua stessa fine. Eppure la figlia stessa le dice, più di una volta, che neppure per lei madre la vita è finita, che può ancora sfuggire a questa sorte ingrata, e per gran parte del film sembra (ma sembra soltanto) che effettivamente lei, la madre, stia maturando il progetto di fuggire, e addirittura, ad un certo punto, di provare a metterlo in pratica.
Peccato veniale di questo film (quello di dare una lettura troppo univoca), d’accordo, e possiamo – diciamo così – passarci sopra, anche perché è un fatto che il ruolo della figura maschile sia stato sicuramente predominante, almeno nella storia recente (diciamo quella della modernità), nel determinare storture e brutture all’interno della famiglia, soprattutto italiana (ma non solo). La nota stonata è che non viene però fuori quella che crediamo sarebbe una necessaria critica della famiglia tradizionale “borghese” (e qui borghese va inteso in senso lato, che comprende anche “proletaria), cioè la messa in discussione dell’istituzione stessa “famiglia”, spesso – di fatto – una sorta di “mini carcere speciale”, all’interno della quale si addomesticano i figli e si insegna loro ad accettare passivamente – e magari esserne pure complici felici – il nostro sistema sociale. Detto altrimenti, dove li si “istruisce” ad interiorizzare i diktat della società del capitale (questa invece un “grande carcerone speciale sociale”), che li “accoglierà” da lì a poco, per esempio nel simpatico mondo del lavoro. Il film, invece, rileva solo il problema rappresentato dal padre tirannico e manesco, e non anche dalla forma stessa del convivere: non si pone cioè mai, neanche di sfuggita, la questione che probabilmente è invece decisiva, ovvero se non sia la struttura stessa il problema, e se la famiglia borghese tradizionale, chiusa e compressa, invece di rappresentare sempre e comunque il primo e ultimo vessillo della civiltà contro la barbarie, non sia in realtà spesso e volentieri complice attiva delle vessazioni del sistema, in un certo senso potremmo quasi dire il suo primo “avamposto”.
Ma, come detto, consideriamolo peccato veniale, e non compito di questo film, che invece riguarda una vicenda che si svolge in un momento storico in cui certe sottigliezze proprio non potevano permettersele. Tuttavia, occorre anche notare che questo film di fatto si rivolge al nostro, di momento storico, con un messaggio in definitiva molto chiaro che pretende di essere anche di monito per il presente, e in questo senso un po’ di attenzione anche al “sistema famiglia” – alla sua storia come al suo ruolo – non ci sarebbe stata male. Ma la famiglia, nonostante le botte, non si mette in discussione, quindi andiamo avanti. Tanto “c’è ancora domani”.
Ma per fare cosa?
Per emanciparsi, viene da pensare, anche seguendo la trama e lo svolgersi del film.
Sembra che tutto, pian piano, conduca in quella direzione: Delia/Paola Cortellesi si rende sempre più conto della vita grama che deve fare, alcuni incontri (per esempio, con i soldati yankee, soprattutto quello di colore) le fanno intravedere mondi lontani e apparentemente più liberi, la sorte dei figli (soprattutto della figlia) la spinge a mettere in discussione alcune certezze – come quella che “uno vale l’altro”, l’importante sia “sistemarsi”.
Dunque, ci sarà un “lieto fine”? La donna di popolo, destinata a campare miseramente fra privazioni, botte del marito, lavoretti precari e malpagati (come sempre ancor meno dei colleghi maschi) e doveri familiari, troverà in qualche modo una via d’uscita, dando anche un segnale all’oggi, in cui si fa pressante una sorta di “maschilismo di ritorno”, un revamping mondiale della società patriarcale che, lungi dal venir meno, sembra conoscere una nuova (probabilmente disperata) primavera?
Come detto, tutto fa pensare che sì, ci sarà: Delia si sta aprendo la strada, anche nella coscienza, verso spazi liberati. Torna a trovare, abbastanza spesso, una sua vecchia fiamma, che sta per lasciare il paese e sembra invitarla ad andare con lui, verso una nuova vita. Incrocia più volte, non si sa quanto casualmente, il soldato yankee di colore già menzionato, che in un americano stretto (che lei non capisce ma sembra comunque intuisca) quasi le intima di cambiare vita e trovare una strada migliore, come merita.
Sembra dunque che ci siamo, alla fine accadrà qualcosa che cambierà le carte in tavola, che sconvolgerà piani e ruoli. Ma cosa? Suspence…
Delia a un certo punto del film riceve una sorta di lettera, che nasconde con cura, agli occhi del marito, ma non solo. Sembra che da questa lettera, che pure perde in casa ma che le viene provvidenzialmente riportata dalla figlia al momento giusto (non prima, però, di esser stata letta dal terribile consorte), dipenda molto della sua sorte futura. La lettera deve contenere qualcosa di molto importante, quasi una questione di vita o di morte, viene da pensare. Dal fatto che il contenuto, fino all’ultimo misterioso, di questo foglio sia così importante, viene da desumere che Delia abbia passato il rubicone, abbia fatto una qualche scelta decisiva e sia determinata a portarla fino in fondo. “E finalmente”, pensano in coro gli spettatori, che obiettivamente non ne possono più di vedere quello strazio di vita che si strascica lungo una quotidianità deprimente.
E dunque sia: Delia, facci vedere di cosa sei capace, siamo tutti con te e in trepida attesa dell’epilogo. Che dovrà essere grandioso, come minimo.
Ed eccoci: Delia esce di casa, inseguita poco dopo dal marito che, letta la famosa lettera, comprende tutto e si accorge della fuga. Ma il marito non ce la fa, oramai è troppo tardi: Delia, insieme a molte altre persone, è in fila per fare quello che rappresenterà, evidentemente, un salto nella propria vita, un salto di emancipazione e di liberazione – questo è chiaro, tutto indica in quella direzione.
E facciamolo allora questo salto. Ma verso dove? In nave con il famoso soldato yankee di colore? In treno con il vecchio fidanzato buono? Da sola verso un “altroquando” che le apra nuovi orizzonti? Niente di tutto questo: verso … una cabina elettorale! Voilà, il passaggio emancipatorio consiste nel … voto alle donne. Tutto molto bello, non c’è che dire.
Dunque, la liberazione, il passaggio emancipatorio è rappresentato dalla partecipazione al voto. È qui che tutto dovrebbe cambiare, aprirsi prospettive di salvezza prima inimmaginabili, chance di uscire dalla violenta gabbia soffocante e frustrante in cui la rinchiude il marito (e il sistema sociale, ma questo non viene mai detto)? Intanto il domani che c’era ancora è passato, e non c’è più. Il passaggio liberatorio è avvenuto, a qualcosa dovrà pur portare. Già ne vediamo i primi benefici: grazie ad esso il marito manesco ed aggressivo deve bloccare il proprio inseguimento perché la folla, adesso sulla via dell’emancipazione collettiva, lo guarda muta, compatta e decisa, inducendolo a tornare sui suoi passi.
Anche Delia adesso sorride fiera – anche se, non ne dubitiamo, per poi tornare a casa a prenderle come il giorno prima ma, si sa, Roma non è stata fatto in un giorno, per cui facciamoci intanto questo passo, poi si vedrà…
Dunque, il dato è tratto, si va verso una società emancipata, una “vera democrazia” dove tutti potranno decidere, votando, del proprio destino.
Ma decidere cosa? È veramente possibile cambiare qualcosa di importante con il voto, o si tratta solo di un’amara illusione (per chi ci crede veramente)?
Per rispondere, voglio citare un brano di un famoso libro, Il manifesto contro il lavoro, che fra le altre cose tratta anche questo tipo di problematica. Questo “Manifesto” individua, come caratteristica fondamentale della società del capitale, il dominio del lavoro (astratto), e la costrizione sociale che lo accompagna. La “democrazia” ne è, in questo senso, uno dei principali dispositivi di comando:
“in democrazia tutto è trattabile, tranne i vincoli della società del lavoro, che invece sono presupposti come un assioma. Ciò di cui si può discutere sono soltanto le modalità e le forme che prendono questi vincoli. C’è sempre e soltanto la scelta tra Pronto e Dixan, tra peste e colera, tra volgarità e stupidità, tra Kohl e Schröder, tra D’Alema e Berlusconi.
La democrazia della società del lavoro è il più perfido sistema di dominio della storia: un sistema di autorepressione. Perciò questa democrazia non organizza mai la libera autodeterminazione dei componenti della società rispetto alle risorse comuni, ma soltanto la forma giuridica che regola i rapporti fra le monadi lavoratrici, separate socialmente l’una dall’altra, costrette a vendersi sui mercati del lavoro. La democrazia è il contrario della libertà. E così i democratici uomini da lavoro finiscono necessariamente per dividersi in amministratori e amministrati, imprenditori e dipendenti, in élite funzionali e materiale umano.”

[Manifesto contro il lavoro, Mimesis 2023, p.53]
Messa su questo piano, la famosa “emancipazione” attraverso il voto non sembra poi così tanto “emancipante”. Non si tratta nemmeno di una questione di genere: il dominio capitalistico, e l’illusione di “liberarsene” o comunque soltanto “addolcirlo” con il voto è una illusione “bipartisan”, che vale allo stesso modo per le donne come per gli uomini. Ovviamente questo tipo di critica vale soprattutto per la cosiddetta “democrazia rappresentativa”, mentre con ogni probabilità per quella che spesso viene chiamata “democrazia diretta”, in genere dai contorni sfumati, si può aprire un altro discorso, che però qui lasciamo in sospeso – anche perché si tratta di un terreno scivoloso, che richiede molta attenzione, all’interno del quale certe dinamiche proprie della democrazia invece rappresentativa, espulse dalla porta, rischiano di rientrare dalla finestra. Continuiamo dunque a parlare di “democrazia”, intendendo in particolare quella rappresentativa.
La “democrazia” quindi, invece di apparire come un vessillo di liberazione, andrebbe compresa per quello che effettivamente è, cioè uno dei più temibili “dispositivi di potere” al servizio del capitale. Per di più, trae origine da quel tragico momento storico che il buon Marx descrive come epoca dell’“accumulazione originaria”. Sempre dal “Manifesto”:
“Non solo dal punto di vista tecnologico, ma anche nelle strutture sociali, la moderna democrazia occidentale non può celare di essere un derivato della dittatura militare dell’inizio della modernità. Sotto la sottile crosta del rituale democratico delle elezioni e del discorso politico troviamo la mostruosità di un apparato che amministra in modo permanente i cittadini dello Stato apparentemente liberi e li disciplina in nome dell’economia monetaria totale e dell’economia di guerra, ancora oggi ad essa legata.”
[Manifesto contro il lavoro, Mimesis 2023, p.92]
Dunque, questo “elogio” del voto con cui si conclude questo famoso film della Cortellesi va proprio, di fatto, nella direzione opposta rispetto a quello che, molto teoricamente, desiderebbe rappresentare: cioè, invece di indicare verso un passaggio realmente emancipatorio e di liberazione, come tutti avremmo auspicato (e, anche solo simbolicamente, una semplice “fuga” lo sarebbe stato già a sufficienza) si chiude velenosamente all’interno di uno dei più temibili dispositivi di controllo della modernità, ovvero il voto elettorale, perno della democrazia rappresentativa.
Questo “elogio della democrazia”, in questo caso indiretto e “travestito”, prende forma, nel film, anche attraverso la figura “benefica” del soldato americano di colore, ancora una volta – in perfetto stile benignano – rappresentante del bene e della coscienza matura dell’umanità. Non casuale il fatto che il soldato USA rappresentante di questo status nel film sia di colore: una spolverata in più di polvere magica al gusto di “sinistra embedded” alla Fazio, Litizzetto, Dandini e personaggi del genere. Giusto per prevenire eventuali indignazioni, è forse il caso di precisare che la figura qui citata non è certo problematica perché di colore, ma perché lo è ipocritamente: è innanzitutto un soldato, e lo è all’interno di un contesto molto particolare che lo vede solo apparentemente “liberatore”, mentre si tratta di un modello illusorio e ingannatore di emancipazione. Il fatto che sia di colore dovrebbe dare maggior credito, evidentemente, a questo teatrino del tutto disdicevole e strumentale, che non possiamo certo approvare.
Un autentico percorso di liberazione, invece, non può che essere radicalmente critico di questo tipo di rappresentazioni, ma anche e soprattutto della “democrazia”, ribadiamo in particolare rappresentativa, e della pretesa di “emanciparsi” attraverso di essa. Democrazia è, e resta, come dice il “Manifesto”, libertà di scegliere fra Pepsi e Coca, fra Rai e Mediaset. La speranza di una autentica liberazione non può che passare, invece, proprio attraverso la critica “senza se e senza ma” di questo micidiale dispositivo di potere. La nostra storia “nascosta” e alternativa (dalla Resistenza alle rivolte operaie ai movimenti popolari fino ai NO TAV e molto altro), da sempre antagonista al potere, anche se narrata solo in canali nascosti e sottaciuti, ci dice ben altro.
Ovviamente – meglio precisarlo, sempre per evitare qualsiasi fraintendimento – questa critica “forte” alla democrazia non allude ad alcun desiderio di “tirannide”, di qualsiasi genere (anche “proletaria”). Anzi, la critica alla democrazia è anche proprio una critica alla forma più sottile e perversa di “tirannide”, che proprio per questo è particolarmente pericolosa. “La democrazia è il contrario della libertà” dice il “Manifesto”. E per libertà, non si intende certo qui quella del nostrano “Polo delle libertà” o comunque delle destre in genere, che di fatto usurpano questa parola, annichilendone il senso.
Anche ammettendo che il “voto alle donne” possa aver avuto un suo senso “liberatorio” nel primo dopoguerra della seconda guerra mondiale (anche questa è una finzione, ma continuiamo nella finzione e diamola per buona), la vera “liberazione” della donna passa per la fine del capitalismo, non altrimenti – così come, di fatto, tutte le altre “liberazioni”. Vale forse la pena citare qui ancora una volta un passaggio del “Manifesto”: “Nel XX secolo, specialmente nelle democrazie fordiste del dopoguerra, sempre più donne furono inserite nel sistema del lavoro. Ma il risultato fu soltanto una coscienza femminile schizofrenica. Da un lato, infatti, l’ingresso delle donne nella sfera del lavoro non poteva portare a nessuna liberazione, ma soltanto alla sottomissione all’idolo del lavoro, come per gli uomini. Dall’altro, la struttura della ‘scissione’ rimase intatta, e così anche la sfera delle attività definite come ‘femminili’, al di fuori del lavoro ufficiale. In questo modo, le donne sono state caricate di un peso doppio e sottoposte allo stesso tempo a imperativi sociali del tutto contraddittori. All’interno della sfera del lavoro, fino a oggi, rimangono confinate prevalentemente in posizioni sottopagate e subalterne.
Questa situazione non cambierà attraverso battaglie, conformi al sistema, che rivendicano quote riservate alle donne, o maggiori chance per la carriera femminile.”

[Manifesto contro il lavoro, Mimesis 2023, p.45]
Il messaggio che dà adesso, nel nostro “oggi”, un film del genere è dunque, in definitiva, anche in questo senso assolutamente negativo e nocivo: donne, affidatevi alle istituzioni e ai loro mezzi per cercare, e trovare, riscatto ed emancipazione. Potrete così lavorare, fare le manager, arruolarvi nell’esercito o nei corpi dello stato tradizionalmente di dominio maschile e, in finale, diventare parlamentari, ministre e pure presidentesse del consiglio. Naturalmente senza che venga meno, di fatto, la divisione dei ruoli, per cui adesso vi è richiesto un “doppio” gravoso compito: rappresentare unità lavorative redditizie per il sistema, e al tempo stesso occuparsi della sua riproduzione (e con questo non vogliamo in alcun modo affermare, come capita di sentir dire ora in certi ambienti devastati mentalmente, che alla donna debba spettare, storicamente come naturalmente, un solo “ruolo”, appunto quella della cura e riproduzione della famiglia e contorni).
Ma continuiamo col film. Fra le altre cose – per scendere un po’, il giusto, nel dettaglio – il film non si preoccupa minimamente nanche di “cosa” vada a votare la tipa, come se fosse un particolare insignificante. Magari Delia, e tante/i come lei, ha pure votato per la monarchia, così come successivamente potrà votare per la democrazia cristiana o l’MSI, e via dicendo. L’importante, insomma, è “poter votare”, e non è certo un caso che un film del genere abbia ottenuto apprezzamenti bipartisan, e sia piaciuto sia alla Meloni che alla Schlein. È il caso di ribadirlo: sempre, ma in particolare oggi, sarebbe invece necessario esattamente il contrario, cioè “esodare” con decisione dai dispositivi del potere, combatterli e ricreare un tessuto sociale dal basso, da cui ripartire per riproporre un progetto collettivo anti-sistemico, cioè anti-capitalistico sin nel midollo. Questa non è una bella velleità di anime belle, ma una necessità storica, da cui non possiamo sottrarci, viste le condizioni cui il sistema ha ridotto il mondo e chi lo abita, e il futuro a dir poco inquietante che ci aspetta.
In questo senso, film come questi sono pericolosi e da rifiutare in blocco, anche se danno l’impressione di lanciare messaggi “emancipatori”, soprattutto in favore del genere più sfavorito dal sistema, appunto quello femminile. Ben al contrario, lo legano invece ancora più fortemente alle catene del sistema, dando solo l’apparenza di un cambiamento (molto opportuna nella società spettacolare post-moderna capitalistica) lasciando di fatto tutto come trovano, persino le botte che la protagonista, ribadiamo, sicuramente tornerà a ricevere una volta tornata a casa dal seggio, dopo quel suo momento, del tutto fittizio, di “liberazione elettorale”.
Un finale diverso, visto il carattere “surreale” di alcuni passaggi interni al film (tipo la “danza delle botte” fra moglie e marito, anzi del marito alla moglie, o l’esplosione del bar dei con-suoceri), e i tratti talvolta ironici (anche se non sempre adeguati, a mio avviso, al contesto che descrivevano) di buona parte del film, sarebbe stato sicuramente possibile ed auspicabile. Poteva per esempio finire con un altro spunto surreale, in stile “miracolo a Milano”, e dare un messaggio di liberazione diverso da quello elettorale. Ma questo è un altro discorso.
Per finire, dopo la “dura critica”, stemperiamo un po’: è vero che ci sono aspetti anche buoni nel film (per esempio una certa tonalità ironica, già riconosciuta, che lo attraversa), ma ci sembrava più importante, adesso, esimerci dal corteo degli elogi, visto che ce ne sono già abbastanza. È preferibile mettere a fuoco gli aspetti “critici”, che sono molti. Un film, dunque, da non vedere o, se proprio non se ne può fare e meno, per esempio invogliati dal tam tam mediatico (come è successo a me), da guardare col necessario occhio critico e un po’ disincantato, giusto per evitare di restare preda del messaggio che, di fatto, vuole lanciare, solo apparentemente liberatorio ma invece malauguratamente e terribilmente in linea coi nostri tristi e cruenti tempi.

Joe Galaxy

4 thoughts on “Film da non vedere: “C’è ancora domani”, di Paola Cortellesi

  1. Lo ammetto, sono fra quelli che hanno molto apprezzato il film, spammando dapperdunque il consiglio di andarlo a vedere.
    Proprio per questo è stato importante leggere questa critica negativa, soprattutto perché pone un tema che va molto al di là del merito del film ed investe, secondo me, anche la modalità del confronto a sinistra (sì, a me oltre al lavoro della Cortellesi piace anche continuare a definirmi orgogliosamente di sinistra, oltreché anticapitalista, antimilitarista, eco-socialista, anarco-comunista e altre cosette ancora).

    Quindi il problema sarà semmai, per chi avrà voglia di leggere quanto segue, trovare il tempo per farlo, sperando che non si stanchi prima.
    Veniamo alla critica del film, che dividerei così a occhio in tre settori: le scelte narrative, il valore del voto in sé e la sua “qualità”.
    SCELTE NARRATIVE. Non mi riferisco tanto alle modalità espressive, anche se personalmente mi sono piaciute molto. [Ad esempio, ho trovato il balletto degli schiaffoni un colpo d’ala che colpisce volutamente lo spettatore e gli rappresenta icasticamente il dramma di una sorta di rito quotidiano, con un effetto straniante e fortissimo di commistione fra tragedia e commedia].
    Mi riferisco invece alla scelta di rappresentare una situazione senza chiaro-scuri, in cui la violenza è esplicita (ma per la verità anche implicita, come i soldi portati a casa da Delia, contati e riposti a chiave nel cassetto dal marito) nelle percosse e anche nella miseria relazionale dell’amplesso. E anche alla mancanza di un finale davvero liberatorio e definitivo (la fuga col vecchio fidanzato? una ribellione a sua volta fisica?).
    Si poteva fare, sicuramente, un altro film, in cui la violenza è ancora più sottile ed immanente. In cui Delia, non si sa bene come, riesce nel miracolo di tenere insieme l’amore per un altro uomo (un uomo degno di questo appellativo) e quello per i propri figli. Oppure in cui rinuncia a tutto, perché forse la libertà è andarsene via, lontano da chiunque. Non sarebbe stato molto credibile, dato il realismo dichiarato (fin dal bianco e nero) ma certo, sì, si poteva fare.
    Solo che sarebbe stato semplicemente un altro film, com’è stato giustamente detto. Più bello, più brutto, questo è un altro discorso. Anzi, sarebbe ganzissimo divertirsi a rivedere qui fra noi la sceneggiatura e deviarla, arricchirla, sfrondarla, giusto per provare a immaginare cosa poteva venirne fuori. Ma in questo momento stiamo parlando di questo film qua, con tutti i suoi limiti e pregi (per me nettamente superiori ai primi, poi non lo dico più, promesso).
    IL VALORE DEL VOTO
    Il mio 49% di sano anarchismo, coltivato già mezzo secolo fa a pane e Bakunin, con contorno di Pietro Gori, mi induce tuttora a convenire con Mark Twain che “se votare servisse qualcosa non ce lo farebbero fare”.
    Questo non toglie che abbia partecipato a tutte le votazioni politiche che mi sono capitate, perché il restante 51% finora ha sempre prevalso, con la sensazione che, se c’era una cosa ancora più stupida di andare a votare, era proprio non andarci.
    Pragmatismo disincantato? Forse. Diciamo mero calcolo costi benefici, nel senso che l’unico possibile beneficio (quello per cui “se nessuno va più a votare diamo un bel segnale”) mi è sempre parso un’illusione ancora più forte dell’aspettarci un qualche cambiamento dalla democrazia rappresentativa. E anche su questo, credo che il film abbia voluto dare un segnale, mettendo sottofondo nella scena finale quella meravigliosa canzone dolorosa e piena di dignità che è “A bocca chiusa” di Daniele Silvestri.
    Perché, se c’è una cosa su cui contano i Padroni (sì, proprio i Padroni di marxiana memoria, quelli che hanno vinto forse definitivamente la lotta di classe, acquisendo l’egemonia culturale e il controllo dei meccanismi di gestione del potere, poco importa se dichiaratamente fascisti o apparentemente democratici) è proprio il fatto che anche in questo ci omologhiamo in tutto e per tutto con la melma consumistica e politicamente agnostica tracimata dall’Oceano Atlantico.
    Non avendo più dodici anni e nemmeno ventiquattro, posso dire d’averla vista arrivare anche questa ondata fetida, insieme alle televisioni commerciali, alla guerra dei poveri contro i più poveri, all’analfabetismo di ritorno e a quello funzionale, all’attacco sistematico contro servizi e beni pubblici, alla colonizzazione consumistica delle festività continuative del cazzo, Halloween compresa.
    E credo che la Cortellessi abbia voluto dire, sì, che di fronte a questo “disimpegno” (ve lo ricordate il “riflusso”, vero?) anche il voto sia uno spazio importante. Forse non così utile, ma che non bisogna abbandonare.
    Nel ’46, coi cadaveri dei partigiani ancora caldi nelle fosse, morti anche per farci uscire da vent’anni in cui l’unica espressione politica disponibile conosciuta ci era stata denegata, era facile andare a votare in massa.
    Non solo. Fu la prima elezione in assoluto delle donne (e in un film che mette al centro la questione femminile, anche solo da un punto di vista di equiparazione formale, per intanto, non mi sembra un richiamo così fuori luogo).
    E poi fu l’elezione dell’Assemblea Costituente. Non avremmo avuto l’articolo 3 secondo comma (il principio modernissimo dell’impegno sociale verso l’uguaglianza sostanziale) o l’articolo 41 secondo comma (le limitazioni all’iniziativa privata) senza quelle votazioni.
    Staremmo meglio adesso senza quei principi, anche se vengono calpestati ogni giorno? Non credo. Sappiamo che ci sono, possiamo richiamarli nelle battaglie disperate che facciamo ogni istante, a difesa della giustizia sociale e dell’ambiente.
    A meno di pensare (con qualche deriva anarcoide in questo caso mal digerita) che difendere la Costituzione e un’idea di partecipazione politica strutturata sia solo un palliativo che illude, che allontana dalla consapevolezza della reale situazione e dall’intraprendere la lotta conseguente.
    Magari fosse così.
    Magari le persone potessero sentirsi maggiormente interpellate qualora ci venisse nuovamente tolta, anche formalmente, la facoltà di incidere attraverso “le istituzioni democratiche”.
    Magari, in sintesi, vigesse il vecchio mito del “tanto peggio tanto meglio”. Ci credevo anch’io, a quindic’anni e forse è l’unica credenza che ho dovuto abbandonare da allora.
    Alessandro Barbero lo dice chiaramente: i grandi stravolgimenti, le grandi conquiste sociali avvengono da sempre quando le classi subalterne hanno la pancia piena e possono organizzarsi, chiedere di più e non solo l’indispensabile, guardare più lontano dell’ora del prossimo pasto da conquistare.
    Smettiamo pure di andare a votare. Smettiamo di scandalizzarci per la disaffezione travolgente verso la democrazia rappresentativa, strumento tipico del “poliziotto buono” capitalista. Una mistificazione, certo, così la sento anch’io e non certo da ora.
    Dopodiché, cosa ci rimane? Solo l’illusione di essere diversi (più puri forse, chissà).
    Alla fine il voto è un atto conclusivo di un processo, non un moloch intoccabile. In questo momento certamente non va sacralizzato ma nemmeno rifiutato come uno dei possibili strumenti per provare a cambiare le cose. Sufficiente? Ma nemmeno per sogno. Necessario? A mio parere sì.
    Certo che nel processo di cui sopra c’è da parlare con le persone, da ascoltare, da inventarsi modalità di partecipazione dal basso nuove ed efficaci, su questo non si discute. Bisogna lavorare dall’esterno, non disdegnando gli spazi ristrettissimi che possiamo utilizzare stando “dentro”. Non per costruirci sopra chissà quale edificio democratico, ma per supportare anche in questo modo un minimo di confronto e di sensibilità in un contesto partecipativo più che moribondo. Dentro come fuori, purtroppo.
    Questo E’ il problema vero. La mancanza di alternative disponibili e ipotetiche, nei fatti e nell’immaginario “concreto” di una società diversa. Una mancanza che non autorizza certo a confidare solo nel voto, ma sollecita ogni nostra fibra muscolare e nervosa, in ogni istante.
    Guardando al voto non come a un competitore (moribondo com’è fra l’altro) ma come uno strumento, utile per quanto possibile.
    QUALITA’ DEL VOTO
    Tema ancora più spinoso, lo dice uno che snobisticamente, lo ammetto, considera la maggioranza dell’elettorato attuale incapace di formarsi il minimo senso critico, non solo su candidature e programmi, ma anche sulla capacità di articolare un significato non superficiale della propria esistenza.
    Perché è ovvio che se prevale ovunque l’ “uomo ad una dimensione” di Marcusiana memoria, se ciò che conta è unicamente il consumo in tutte le sue forme (fisiche e immateriali, per così dire culturali) allora candidati e programmi saranno semplicemente esplicazione di questa stessa visione esistenziale, coltivata sapientemente per decenni dai famosi Padroni nel paradigma arcinoto del “lavora, consuma, crepa”.
    Si dice, ma se Delia avesse votato monarchico sarebbe stato comunque un voto positivo?
    Io dico di sì (con tutta l’ammirazione che ho per la figura di Gaetano Bresci…).
    Perché era la prima volta che una donna poteva semplicemente porsi il problema, discuterne, decidere, confrontare il risultato della sua scelta, cambiare o confermare la propria idea.
    Io non appartengo alla Brigata Voltaire, attenzione. La penso semmai come Popper e il suo celeberrimo paradosso: non si può essere tolleranti con gli intolleranti. Non tutte le affermazioni politiche sono accettabili, quando si fondano sulla limitazione dichiarata della libertà di espressione.
    E sull’odio viscerale verso le limitazioni subdole, non dichiarate, mi pare di aver già detto abbastanza.
    Eppure, fra una donna a cui in quanto tale non viene concessa l’unica modalità di espressione politica ed un’altra che può farlo e vota in modo diverso da me, non ho dubbi a scegliere la seconda.
    Ci sarà tempo per confrontarsi e capire, dopo.

    P.S. Voglio aggiungere una cosa sul dialogo a sinistra. O dove cavolo vi pare, se pensate che “sinistra” sia un termine obsoleto, ambiguo, o semplicemente se subite così tanto l’egemonia culturale della società consumistica da pensare che una parola ed un concetto ad ogni stagione vadano rinnovati come il guardaroba.
    Mi rivolgo insomma alle persone che condividono una critica feroce contro questa società in nome dell’uguaglianza sostanziale, del rispetto per la partecipazione, per la parità di genere, per l’ambiente, per la Libertà individuale e collettiva, da tutte le fedi assolute.
    Troviamo il modo di continuare a confrontarci, scaviamo sotto la sabbia delle diversità apparenti per ritrovare il terreno duro di ciò che ci unisce.
    Non sprechiamo la nostra intelligenza e il nostro tempo a cercare insistentemente il distinguo, solo per affermare la nostra presunta specificità e superiorità intellettuale. Noi siamo altro, noi siamo socialità, ricchezza inestimabile nelle differenze e nel confronto.
    Anche due critiche opposte dello stesso film lo possono sviluppare e regalarci maggiore consapevolezza sui prossimi passi da fare.
    Sono tanti e difficili.

    • Grazie Luca del bel commento. Solo una breve annotazione alle tue note:
      Parlando di elezioni, benche’ tu riconosca che non sono la panacea di tutti i mali, affermi: “Questo non toglie che abbia partecipato a tutte le votazioni politiche che mi sono capitate […] con la sensazione che, se c’era una cosa ancora più stupida di andare a votare, era proprio non andarci.
      Pragmatismo disincantato? Forse. Diciamo mero calcolo costi benefici, nel senso che l’unico possibile beneficio (quello per cui “se nessuno va più a votare diamo un bel segnale”) mi è sempre parso un’illusione ancora più forte dell’aspettarci un qualche cambiamento dalla democrazia rappresentativa. […]
      Perché, se c’è una cosa su cui contano i Padroni […] è proprio il fatto che anche in questo ci omologhiamo in tutto e per tutto con la melma consumistica e politicamente agnostica tracimata dall’Oceano Atlantico.”
      Ecco, dal mio punto di vista noi ci omologhiamo al “volere” dei Potenti, atlantici o meno che siano, proprio se diamo per buona la kermesse elettorale, e sdoganiamo la narrazione (a mio avviso falsa) secondo la quale il diritto al voto e’ quel gran passo di emancipazione, e la delega – suo corollario indispensabile – uno dei cardini di quella democrazia la quale ci permette di mantenere il nostro meraviglioso stile di vita (mentre ovviamente prima il mondo era invivibile) e via dicendo.
      Far passare per buono questo punto di vista e’ oggi, a mio avviso, molto pericoloso – ed e’ cio’ che fa il film della Cortellesi.
      Quanto sopra non implica il fatto che non si debba andare a votare: ognuno e’ ovviamente libero di sprecare le proprie energie, fisiche e mentali, come vuole. Quanto sopra vuole invece sottolineare come la speranza di cambiamento attraverso le elezioni sia una illusione bella e buona, illusione che oltretutto “rasserena” gli animi perche’ fa credere al buon cittadino di “aver fatto qualcosa”, di aver “partecipato”, mentre non fa altro che riprodurre, per piu’ versi, le condizioni del proprio disastro umano.
      L’alternativa e’ ancora piu’ illusoria? E chi lo dice? L’alternativa e’ molto piu’ difficile e faticosa, questo e’ certo, ma e’ invece l’unica vera possibilita’. O quella (cioe’ l’autorganizzazione e l’autodeterminazione collettiva e consapevole) o le catene, fittizie ma spesso anche molto concrete. La frase con cui chiude il “Manifesto del partito comunista” e’ vera oggi come lo era allora: “proletari di tutto il mondo unitevi, non avete da perdere che le vostre catene”, anche se oggi potremmo forse arricchirla ed attualizzarla in vari modi, non ultimo questo: “proletari di tutto il mondo, non fatevi ingannare dalle elezioni e dai media, e unitevi, non avete da perdere che le vostre catene”.
      Forse si potrebbe obiettare che oggi non abbiamo piu’ tutte quelle catene, oggi sono molto meno pesanti di un secolo e mezzo fa, e che quindi invece qualcosa da perdere lo abbiamo (anche se questo discorso vale soprattutto per noi benestanti dell’occidente). Ma su questo punto aprirei volentieri il dibattito. Ho l’impressione che per molti la vita sia tutt’altro che “un pranzo di gala”, per parafrasare un vecchio aforisma, e che ‘ste catene, anche se forse meno visibili, siano ancora ben presenti, e pesanti quanto se non piu’ di prima.

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