The Great Reset: un libro per tutti e per nessuno

“Ci dominate per il nostro bene” disse con un filo di voce. “Credete che gli esseri umani non siano adatti a governarsi da soli, perciò…”

-George Orwell, 1984

Si può dire, in fondo, che il motto del liberalismo sia “vivere pericolosamente”. Vale a dire che gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo o, meglio, che sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire, ecc., come fattori di pericolo… Si pensi, ad esempio, alla campagna sulle casse di risparmio dell’inizio del XIX secolo, alla comparsa della letteratura poliziesca e dell’interesse giornalistico per il crimine a partire dalla metà del XIX secolo, si pensi a tutte le campagne riguardanti la malattia e l’igiene, si consideri tutto ciò che accade intorno alla sessualità e alla paura delle degenerazione: degenerazione dell’individuo, della famiglia, della razza, della specie umana; insomma dappertutto si può vedere questa stimolazione del timore del pericolo, che è in qualche modo la condizione, il correlativo – psicologico, culturale, interno – del liberalismo. Niente liberalismo senza cultura del pericolo… Libertà economica, liberalismo nel senso che ho appena detto, e tecniche disciplinari sono strettamente connesse

-Michel Foucault, La questione del liberalismo

E poi bisognerebbe riflettere su quelli che, incapaci (a loro merito) di stare nell’ossessivo discorso maggioritario, ma drasticamente privi di strumenti critici, sono caduti (a loro rischio) in alter-narrazioni tossiche. Non sorprende, d’altronde, che dopo decenni di banalizzazione della lingua, di colonizzazione dell’immaginario e di guerra alla complessità, le più sciape storie dell’orrore possano suonare credibili. Da un certo punto di vista, questi nuovi “credenti” rappresentano una catastrofe e una fatica di Sisifo per chi, oltre a non stare nella narrazione maggioritaria, deve poi anche smarcarsi da questa galassia. Ma c’è qualcosa che va osservato e, se possibile, contattato: la qualità umana di chi trova così atroce quel che va accadendo, da ipotizzare che possa esser giustificato solo da qualcosa di altrettanto atroce

-Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni, Come siamo arrivati fin qui? Il contagio di un’idea di salute

Di fronte a tutto questo, non c’era da stupirsi che nascessero fantasie di complotto. C’era da stupirsi che non ne nascessero anche di più

-Wu Ming 1, La Q di Qomplotto. Qanon e dintorni. Come le fantasie di complotto difendono il sistema

The Great Reset: un libro per tutti e per nessuno

Si è fatto un gran parlare, da qualche tempo a questa parte, di un testo dal titolo The Great Reset, apparso principalmente sul web (comunque anche disponibile in versione cartacea, per i temerari che volessero procurarselo). Il libro, che – come si intuisce dal titolo – vorrebbe proporre suggerimenti per un reset del mondo, dopo la cosiddetta pandemia, è disponibile qui, only in english ovviamente, come la maggior parte di questo tipo di testi – cosa che pone già un limite alla possibile utenza.

Le reazioni a questa pubblicazione sono state, come immaginabile, le più varie: dal grido di allarme di chi ci leggeva una sorta di manuale di istruzioni per l’istituzione di una società post-covid “iper-orwelliana”,1 a chi ne tesse gli elogi, trovandolo equilibrato e foriero di valide proposte per un futuro “sostenibile” – per usare una delle parole magiche del momento.2

Ma come nasce questo testo, chi l’ha scritto, quando e perché? Cosa dice nel dettaglio?3

Per rispondere a queste domande, e visto che spesso se ne parla solo per sentito dire, ci siamo presi la briga di leggerlo, e abbiamo pensato di riportare in queste poche pagine una sintesi dei punti salienti, più alcune nostre ovviamente non vincolanti impressioni. Premetto che la “sintesi” non sarà brevissima come inizialmente sperato, per cui pregherei il coraggioso lettore o la coraggiosa lettrice, che vorranno avventurarsi nella lettura, di armarsi di un po’ di pazienza.

Innanzitutto, gli autori: si tratta di due personaggi di primo piano del WEF, cioè il World Economic Forum, una delle tante disgraziate (soprattutto per noi) istituzioni sovranazionali che non decidono nulla ma contano molto. Le loro biografie sono descritte per sommi capi nel libro stesso, insieme a due gigantografie – considerando che occupano quasi tre/quarti della pagina – che li ritraggono belli e sicuri, quasi aureolati, su uno sfondo che richiama una natura invitante e, viene da pensare, incontaminata.

Il WEF è noto per le famose contestatissime riunioni annuali in quel di DAVOS (amena località montana svizzera da cui, presumibilmente, proviene il glorioso sfondo di cui sopra). Anche nell’anno “pandemico” si è svolta la consueta assise, seppur nel formato “smart working”, visto che i partecipanti si sono visti, per una volta e immaginiamo con loro grande scorno, via monitor invece che nei favolosi alberghi della località montana. Klaus Schwab, fondatore e attuale presidente – anzi chairman, giusto per mantenere il tono english – del WEF, e Thierry Malleret, giovane (anche se non più tanto) virgulto del mondo economico finanziario nonché efficiente collaboratore sempre del WEF, sono gli estensori di questo scritto. Interessante che l’ultima riunione del WEF, svoltasi come detto virtualmente dal 25 al 29 gennaio 2021, sia stata intitolata proprio al “Great Reset”, a testimonianza di quanto stia a cuore ai potenti del mondo questa tematica – ovviamente per rendere il mondo stesso più “resiliente”, come piace dire ora, inclusivo e, ça va sans dire, sostenibile.4

Interessante anche il fatto che questo epico testo sia uscito, battendo ogni record di prontezza e velocità, quasi a ridosso della “pandemia”, la quale è un fenomeno nuovo e di non facile e immediata comprensione. l’OMS infatti dichiara la pandemia l’undici marzo del 2020, The Great Reset viene pubblicato ufficialmente il nove di luglio, sempre del 2020, cioè meno di 4 mesi dopo – comunque l’argomento era dibattuto da qualche tempo, il testo circolava già da prima e, sicuramente, non è stato scritto in due giorni.

Ora, un impavido complottista potrebbe desumere, non senza qualche ragione, che il testo fosse dunque – diciamo così – già pronto, almeno “in bozza”, e aspettasse solo l’occasione di uscire allo scoperto. Senza capitombolare nel complottismo e confini adiacenti, crediamo invece si tratti di una sorta di manifestazione fenomenica dello Zeitgeist, cioè dello spirito del tempo. Da anni si preconizza, ed auspica, una accelerazione nella digitalizzazione del mondo – già comunque avanzatissima – e una spinta forte e definitiva verso quella che chiamano la green economy. Questo corrisponde alle esigenze di un capitalismo in crisi profonda, che cerca oramai margini adeguati di profitto prevalentemente nella riduzione dei costi, nella finanza e nell’escamotage ecologista, visto che di allargamento dei mercati classici non si parla nemmeno più, e con giusta causa. Il green, le cui parole d’ordine sono, come accennato, “resilienza” e “sostenibilità”, sembra essere infatti l’ultima spiaggia di un capitalismo alla canna del gas, un presunto “nuovo mercato” legato alla creazione di plusvalore che ora avrebbe come cardine produttivo il “rispetto dell’ambiente”. Ma si tratta con ogni probabilità di mera illusione, poiché il corto circuito che si è creato con la terza rivoluzione industriale, quella appunto legata alla telematica e al digitale, rende oramai impossibile, e in modo definitivo, il recupero di livelli adeguati di valorizzazione globale. La ulteriore telematizzazione e la digitalizzazione dovrebbero così rappresentare, appunto illusoriamente, a tutti gli effetti il deus-ex-machina capace di rimettere in piedi una situazione disastrosa. Che questo possa invece contribuire ad acuire la crisi e a determinare condizioni ancor più disastrose per l’intera umanità, presunti vincitori compresi, è una cosa che non interessa, né probabilmente può farlo, l’ottusa logica aziendalistica che presiede ad ogni scelta e ad ogni movimento del sistema dominante.

Il progetto “Great Reset” si inserisce a pieno titolo in questa logica, e la sua precoce apparizione non deve, dunque, stupire più di tanto, visto che era da tempo “nelle cose stesse”. Il COVID 19, e la sua sconcertante gestione, è stato decisamente l’occasione giusta, cioè la pandemia che tutti aspettavano. Non è neanche un caso che da tempo fosse “predetto” l’arrivo di una pandemia.5 Questo evento era stato pre-detto nel senso letterale del termine, cioè detto prima, perché in qualche modo atteso e quasi auspicato – il che è molto diverso dall’affermare che sia stato costruito ad hoc, per esempio in un laboratorio o in qualche riunione segretissima dei potenti del mondo. Diciamo che il terreno era pronto, e vi era come una sorta di “febbrile attesa” nel mondo che conta. Come nel caso dell’HIV, potremmo dire, questo evento è stato (ed è) di una utilità fondamentale per il mantenimento in vita di un sistema che faceva (e fa) acqua da tutte le parti, e che naviga – ripetiamolo – all’interno di una crisi senza ritorno. Entrambi, HIV e covid, sono anche, di fatto, per usare un linguaggio foucaultiano, dispositivi di normalizzazione molto efficaci, atti a scongiurare qualsiasi deriva libertaria, nemica temibile per il rigido sistema del capitale, in favore di una diffusa disciplinizzazione (anche e forse soprattutto interiore), e a provocare reazioni socialmente condivise che possano essere monetizzate nel calderone infernale della valorizzazione capitalistica. Detto per inciso e per evitare letture tutto bianco/tutto nero, questo non significa negare l’esistenza del covid e dell’HIV in quanto problemi sanitari etc.etc. Ma chiudiamo subito questa inutile parentesi perché, come giustamente sottolinea Wu Ming 1, si corre seriamente il rischio che una negazione si trasformi in doppia affermazione,6 e comunque è ben noto che non c’è modo di parlare apertamente con chi ha un credo e una fede incrollabili, per esempio nella cosiddetta (spesso a sproposito) scienza o nella razionalità illuministica.7

Quanto affermato sopra fa a pugni con le tesi, provenienti principalmente dalla sinistra classica (ma anche quella di movimento non scherza), per le quali la crisi pandemica avrebbe messo in grave difficoltà il capitalismo, in quanto fenomeno indesiderato e di fatto sfuggito di mano. Crediamo invece il contrario, cioè che il capitalismo di crisi abbia bisogno come dell’aria di eventi del genere, e che il “controllo”, pur senza sopravvalutarne l’importanza, sia oggi un presupposto indispensabile per garantire quel po’ di accumulo di plusvalore globale ancora possibile.8 Come dice Foucault nell’esergo, la “cultura del pericolo” è sempre stato un elemento fondamentale per la sopravvivenza del sistema capitalistico, e oggi probabilmente lo è ancora di più.

Ma veniamo al testo stesso e vediamo quali sono i “cardini” su cui poggerebbe, secondo i nostri autori, questo “grande reset” sociale.

Scorrendo la “narrazione” si fa subito notare il tono quasi fabiano che attraversa l’intero libretto, che sembra indirizzato verso proposte vicino ad un socialismo liberale alla Draghi.9

Dopo una breve e non particolarmente densa introduzione, il libro si divide in 3 sezioni, rispettivamente intitolate MACRO RESET, MICRO RESET (Industry and business) e INDIVIDUAL RESET.

Come è possibile intuire sin da questa tripartizione, il libro intende analizzare gli effetti del COVID, e le trasformazioni che il suo impatto dovrebbe o potrebbe determinare, su tre livelli: il primo più legato ad un piano finanziario e macro-economico, con un’attenzione privilegiata verso aspetti geopolitico e ambientali, il secondo che indaga più nello specifico questi effetti su un livello micro-economico, quindi sull’industria e sul business e più in generale sulle modalità del lavoro post-covid, il terzo ancora più nello specifico analizza in termini di risposte individuali lo “shock” pandemico, valutando reazioni e proposte in fuzione della formazione di una umanità “rinnovata” da questo scontro epocale contro … se stessa, potremmo forse dire.

Nella prima sezione, MACRO RESET, quello che salta all’occhio è l’attenzione per la dimensione globale del fenomeno. In un mondo “iperconnesso”, per usare le loro parole, non potrebbe comunque essere diversamente. Tuttavia, un conto è dire che “il mondo è concatenato”, a che siamo tutti “linkati insieme” (The Great Reset, p.13 – d’ora in poi, GR), un conto è dimenticare che, se uscire dai guasti del sistema sarebbe un bene per tutti, le responsabilità e le vittime principali della catastrofe in corso non sono però le stesse, così come gli interessi in gioco, e un “siamo tutti uguali” in questo caso non è accettabile. Cosa, quest’ultima, che gli autori di questo gaio pamphlet evitano accuratamente di sottolineare.

Come sempre accade in questi casi, infatti, l’élite non riconosce mai livelli diversi di cause ed effetti, ma parla a nome di una generale quanto astratta “umanità”, come se Jeff Bezos o un lavoratore infante del settore tessile in Bangladesh fossero veramente sulla stessa barca. Questo è anche il tono che caratterizza tutto il testo, e non poteva essere altrimenti, considerando chi sono gli autori. Che però, come da copione, a parole si mostrano estremamente preoccupati per le sorti dei popoli e degli individui più deboli, ed anzi proprio per proteggere e garantire un livello di vita adeguato all’altezza delle sfide globali, alle quale pure il covid appartiene, con sorprendente originalità finiscono per escogitare ricette … neoliberiste che, si sa, grazie alla mitologica “mano invisibile”, sicuramente rimetteranno in sesto il mondo, in qualche modo.10

Questo mondo iper-connesso si presenta caratterizzato, secondo i nostri, da tre fattori ineliminabili: interdipendenza, velocità e complessità. Questo ha fatto sì che la pandemia si espandesse così velocemente e capillarmente, ma al tempo stesso questi stessi fattori potrebbero funzionare come “antidoto” capace di salvarci. Potrebbero cioè rendere possibile, praticamente in tempo reale, il monitoraggio permanente e pervasivo della situazione, mettendo così in grado di tenerla sotto controllo:

“Solo per fornire un esempio generale e molto semplificato, il contenimento della pandemia di coronavirus richiederà una rete di sorveglianza globale in grado di identificare nuovi focolai non appena essi si presentano, laboratori in diverse località del mondo in grado di analizzare rapidamente i nuovi ceppi virali e sviluppare trattamenti efficaci, grandi infrastrutture informatiche in modo che le comunità possano prepararsi e reagire efficacemente, meccanismi politici appropriati e coordinati per implementare in modo efficiente le decisioni una volta sono state prese, e così via” (GR, p.18)

Una rete globale, insomma, capace di intervenire molto rapidamente là dove si pensi sia necessario.

Ovviamente si dichiara che questo debba avvenire e sia necessario solo per garantire un controllo sanitario e la salute delle popolazioni. Tuttavia non sembra essere esattamente questa la principale preoccupazione dei nostri, almeno non sicuramente l’unica. Nel capitolo successivo, dal titolo RESET ECONOMICO, sembrano infatti preoccuparsi molto soprattutto della ripresa economica, per la quale è necessario riconquistare la fiducia dei popoli e garantire loro la sicurezza sanitaria:

“…I governi devono fare tutto quello che serve e spendere quanto è necessario nell’interesse della nostra salute e della nostra ricchezza collettiva affinché l’economia si riprenda in modo sostenibile”. (GR, p.22)

cosa che, sembra,

“non può essere considerata prima che un vaccino sia disponibile” (GR, p.24)

affermazione che lancia un temibile assist ai cosiddetti “no vax”, considerando soprattutto che, come detto, la “pandemia” al momento della pubblicazione di questo testo era praticamente appena scoppiata e se ne sapeva poco o nulla. Ma non è questo il luogo dove entrare in certe polemiche, di cui abbonda il web e ad esse rimandiamo.11

Da notare come cominci a fare capolino la mitologica “sostenibilità”. L’economia post-pandemica sarà sostenibile, o non sarà. Così almeno affermano i due cavalieri erranti dell’umanità a venire.12 La pandemia, ci dicono, è una cartina di tornasole, che rivela i difetti di un modo di produzione quale lo abbiamo conosciuto fino ad ora e invita con forza a dirigersi verso un’economia “green”, per usare un altro termine leggermente di moda:

“L’economia green abbraccia una gamma di possibilità, dall’energia verde all’ecoturismo all’economia circolare” (GR, p.28)

Il rilancio dell’economia può basarsi, dunque, su questa produzione verde, circolare, senza sprechi, inclusiva e, naturalmente, sostenibile. Si tratta solo di prendere questa strada, e ancora una volta la demiurgica “mano invisibile” farà il resto.

In che modo sarebbe possibile superare questo tipo di problematiche, già presenti ma che la pandemia ha inasprito? Estendere il benessere economico e sociale a tutti, penalizzando chi adesso trae sfacciatamente vantaggio dalla situazione di crisi in cui versa il mondo? Rendere possibile per tutti una vita degna e dignitosa? Sono questioni di non poco conto, che i nostri non poco retoricamente si pongono. Questioni che rimettono in discussioni interi assetti sociali, se non il sistema sociale stesso. Non sarà quindi facile affrontarle ma, soprattutto, se la storia ci insegna qualcosa,

“è improbabile che questo scenario ottimistico prevalga senza grandi tumulti sociali” (GR, p.36)

Le “sollevazioni sociali”, dunque, sono uno dei maggiori rischi che potrebbe portare con sé l’era post-pandemica – se mai ce ne sarà una, ovviamente.

Alle “sollevazioni sociali” e alle rivolte i nostri dedicano addirittura un denso capitoletto, dove ravvisano come queste potrebbero diventare un serio problema in un prossimo futuro:

“I disordini sociali colpiscono sia il benessere economico che quello sociale, ma è essenziale sottolineare che non siamo impotenti di fronte a possibili tumulti, per la semplice ragione che i governi e, in misura minore, le aziende e altre organizzazioni possono prepararsi a mitigare il rischio adottando le giuste politiche. La più grande causa di fondo dei disordini sociali è la disuguaglianza. Gli strumenti politici per combattere livelli inaccettabili di disuguaglianza esistono e spesso sono nelle mani dei governi” (GR, p.38)

Quali sono, dunque, questi strumenti, specie nell’epoca post-Covid, se e quando sarà? Ma, soprattutto, chi dovrebbe dirigere le danze?

“Una delle grandi lezioni degli ultimi cinque secoli in Europa e in America è questa: le crisi acute contribuiscono a rafforzare il potere dello Stato. È sempre stato così e non c’è motivo per cui dovrebbe essere diverso con la pandemia COVID-19. Gli storici sottolineano il fatto che le crescenti risorse fiscali dei paesi capitalisti dal 18° secolo in poi sono sempre state strettamente associate alla necessità di combattere guerre” (GR, p.39)

Dunque, “è sempre stato così”, per cui dovrebbe essere lo Stato il deus-ex-machina capace di salvare la situazione, come peraltro è in effetti accaduto ogni volta che il sistema ha versato in crisi e ha avuto bisogno di risollevarsi. Si tratterà, ancora una volta, di rimboccarsi statualmente le maniche e, per restare all’interno di questa retorica dal linguaggio guerrafondaio, combattere l’ennesima guerra – “ solo questa volta contro un nemico invisibile” (GR, p.39) – per risollevare le sorti del mondo collassato a causa, si presume, soltanto di questa maligna pandemia.

Ma come si combatte, secondo i nostri, questa terribile guerra?

Si tratta, lo abbiamo capito, di “resettare” il mondo. Innanzitutto, occorre ridefinire il “contratto sociale”, per continuare con le astrazioni concrete.13 Nello specifico, è giunta l’ora di uscire dall’egoismo individualista di stampo thatcheriamo o reaganiano, e rilanciare un nuovo welfare, che garantisca assistenza sociale, servizi di base di qualità, maggiori protezioni per i lavoratori e via dicendo. Naturalmente, non poteva mancare l’appello ai giovani. È soprattutto per loro che dobbiamo sforzarci di riformare “radicalmente” la struttura sociale. Anche se essi stessi saranno, presumibilmente, il motore del cambiamento:

“L’attivismo giovanile sta aumentando in tutto il mondo, rivoluzionato dai social media che aumentano la mobilitazione in una misura che sarebbe stata impossibile prima. Prende molte forme diverse, che vanno dalla partecipazione politica non istituzionalizzata alle dimostrazioni e alle proteste, e affronta questioni diverse come il cambiamento climatico, le riforme economiche, la parità di genere e i diritti LGBTQ. La giovane generazione è saldamente all’avanguardia del cambiamento sociale. Ci sono pochi dubbi che sarà il catalizzatore del cambiamento e una fonte di slancio critico per il Grande Reset” (GR, p.43)

Lasciando in sospeso il fatto che in passato le grandi mobilitazioni, senza i social media, non fossero possibili, e che gli stessi social media siano tutto questo progresso per lo sviluppo della capacità critica dei loro utenti, colpisce l’affetto che i nostri due capibanda dimostrano per le giovani generazioni, che si impegnerebbero attivamente (e, ovviamente “pacificamente”, si sono scordati di scriverlo, o lo danno per scontato) per un mondo “green” e “sostenibile”. Sorge sempre più forte i sospetto che gli autori di questo simpatico pamphlet siano, in realtà, due temibili comunisti che, sotto mentite spoglie, vorrebbero indurre le genti alla rivoluzione.

Ma il “reset” ha bisogno anche di una sterzata di natura “geopolitica”. Questo perché, affermano i nostri citando l’economista Jean-Pierre Lehmann,

“Non c’è un nuovo ordine globale, c’è solo una transizione caotica verso l’incertezza” (p.44)

La preoccupazione è che l’epoca post-covid – sempre ammesso che ce ne sia una – conduca verso una situazione di “anarchia” (e, si sa, non c’è cosa più temuta da ogni potere in ogni luogo e in ogni tempo). Facendo un salto mortale epistemologico degno di un certo rilievo, i nostri individuano potenziali pericoli “anarchici” nelle tendenze nazionalistiche che pervadono la società da qualche tempo a questa parte. Il pericolo sommo lo intravedono nel caos geo-politico che potrebbe determinarsi a causa di una mancanza di forte leadership:

“Il 21° secolo sarà molto probabilmente un’era priva di una egemonia e durante la quale nessun un potere avrà il dominio assoluto – di conseguenza, il potere e la capacità di incidere saranno ridistribuiti in modo caotico e in alcuni casi con un certo disappunto. In questo nuovo mondo disordinato, definito da uno spostamento verso la multipolarità e un’intensa competizione per la capacità di essere influenti, i conflitti o le tensioni non saranno più guidati dall’ideologia … , ma stimolati dai nazionalismi e dai conflitti per le risorse. Se nessun potere può imporre un ordine, il nostro mondo soffrirà di un ‘deficit di ordine globale’ ” (GR, p.44)

Dunque?

Dunque, ci vuole ordine. Un ordine all’altezza del mondo globalizzato tecnologizzato iperconnesso che è il nostro oggi. Occorre cioè una global governance, una sorta di “comitato per salvare il mondo”, per usare un’espressione in uso durante la crisi asiatica di un paio di decenni fa e che i nostri riciclano per l’occasione.14 Il COVID 19 porta invece, secondo i due autori, nella direzione opposta, cioè verso la sregolatezza e il caos ingestibile. Occorre dunque prendere le redini della situazione e riportare a riva questa imbarcazione che sta andando alla deriva. Ma chi, e come, può e deve fare tutto questo, se un singolo Stato da solo non può esserne capace?

Global governance, sottolineano i nostri, è quasi un sinonimo di “cooperazione internazionale”. La rivalità fra Cina e USA non aiuta certo in questo senso, anzi! Senza “cooperazione” i paese più fragili rischiano di fallire, e si riproporrebbe, per l’occidente, il rischio di nuove ondate di migrazione di massa, spauracchio per eccellenza per quello che una volta veniva definito “primo mondo” (eccetto, ovviamente, quando la massa migrante, trasformata in manodopera ricattabile e a bassissimo costo, torna leggermente utile per ingrassare i profitti, ma questo è – quasi – un altro discorso, che non interessa più di tanto i nostri eroi). Dunque, la parola d’ordine è “cooperazione”, in vista di una global governance. Ma a guida di chi? La risposta a questa pressante domanda, che emerge quasi per proprio conto durante la lettura del testo, continua a latitare. Proseguiamola, comunque, questa interessante lettura.

Oltre ai rischi sopra esposti, non dobbiamo dimenticare – ci esortano i nostri – il problema ecologico e la devastazione della natura in corso, supposta causa anche della crisi pandemica del covid 19. Il famoso spillover, cioè il salto di specie, starebbe a testimoniare del livello di guardia raggiunto. La questione climatico-ecologica, dunque, è in cima alle priorità da affrontare, e la global governance dovrà farsene carico con urgenza. Un percorso lungo e faticoso, ma – per citare Lao Tzu –

“un viaggio di mille miglia comincia con un piccolo passo” (GR, p.59)

Inoltre, occuparsi di dar vita ad una economia “sostenibile” per l’ambiente può anche essere – come abbiamo intuito – un buon affare:

“…in ultima analisi, il cambiamento sistemico arriverà da responsabili politici e leader economici disposti a trarre vantaggio dagli incentivi COVID per dare il via ad una economia compatibile con la natura” (GR, p.60)

Naturalmente

“non si tratterà solo di investimenti pubblici. La chiave per attirare il capitale privato in investimenti ‘verdi’ sarà spostare le leve politiche chiave e gli incentivi finanziari pubblici come parte di un più ampio reset economico … Molti governi stanno iniziando ad agire, ma è necessario fare molto di più per orientare il sistema verso un nuovo approccio, compatibile con la natura, e far sì che la maggioranza delle persone in tutto il mondo si renda conto che questa non è solo una imperiosa necessità ma anche una notevole opportunità. Un documento politico preparato da Systemiq in collaborazione con il World Economic Forum stima che la costruzione di un’economia ‘verde’ potrebbe rappresentare entrate per più di 10 trilioni di dollari all’anno entro il 2030 – in termini di nuove opportunità economiche e di costi evitati. A breve termine, l’impiego di circa 250 miliardi di dollari di incentivi potrebbe generare fino a 37 milioni di posti di lavoro, rispettosi della natura, in un modo altamente efficace dal punto di vista dei costi. Ripristinare l’ambiente non dovrebbe essere visto come un costo, ma piuttosto come un investimento che genererà attività economica e opportunità di lavoro” (GR, pp.60-61)

In modo simile al famoso “milione di posti di lavoro” di berlusconiana memoria, i nostri ci allettano con la promessa di un paradiso economico verde, ovviamente finanziato prevalentente con fondi pubblici, sia pure assistiti da investitori privati opportunamente “incentivati”. Ma questo “reset” ecologico ed economico, ne richiede uno altrettanto forte di natura tecnologica. Vediamo come.

Nel 2016, ci informano i nostri, uscì un testo che fece un certo scalpore: The Fourth Industrial Revolution, altra pubblicazione proveniente dal capiente cilindro del WEF, testo partorito, ça va sans dire, dallo stesso Klaus Schwab, che evidentemente aveva già allora le idee chiare al proposito.15 Questo testo preconizza e indirizza l’ordine del discorso economico-finanziario verso la rivoluzione tecnologica prossima ventura (in realtà già in corso). Una rivoluzione necessaria al capitalismo perché gli permette di aumentare la produttività e al tempo stesso diminuire i costi (soprattutto comprimendo o tagliando quelli determinati dall’utilizzo e dallo sfruttamento del cosiddetto lavoro vivo, cioè la forza lavoro umana fatta di “nervi, muscoli e cervello”, per parafrasare qualcuno).

Questo passaggio rivoluzionario, lungi dal rappresentare un problema sociale – visto che determina necessariamente un aumento della disoccupazione sociale e dell’immiserimento delle classi “non abbienti” –, sarebbe invece per i nostri un passaggio indispensabile per rilanciare la competitività delle aziende e quindi la famosa “crescita economica” e così, in linea (molto) teorica, porre le basi per una futura massiva occupazione.

Ma cosa c’entra il Covid 19 con tutto questo? C’entra moltissimo, nella misura cui ha funzionato, e continua a farlo, come potente accelleratore di questo “indispensabile” processo:

“Con la pandemia, la ‘trasformazione digitale’ a cui tanti analisti hanno fatto riferimento per anni, senza essere esattamente sicuri di cosa significasse, ha trovato il suo catalizzatore. Uno dei principali effetti del confinamento sarà l’espansione e la progressione del mondo digitale in modo decisivo e spesso permanente. Questo è evidente non solo nei suoi aspetti più banali e aneddotici (più conversazioni online, più intrattenimento via streaming, più contenuti digitali in generale), ma anche in termini di forzare cambiamenti più profondi nel modo in cui le aziende operano” (GR, p.62)

Inoltre, il perfezionamento e la diffusione capillare della tecnologia digitale porterebbe con sé, come abbiamo già accennato, un ulteriore vantaggio, sempre ovviamente a dire dei nostri, e cioè la possibilità di monitorare in tempo reale e in modo costante praticamente tutti e in ogni luogo – come già oggi il mondo asiatico, per esempio la Cina, sta ampiamente dimostrando. Naturalmente tutto questo, diciamo, “a fin di bene”, perché permetterebbe, solo per dirne una, un controllo sanitario permanente, e quindi di scongiurare temibili epidemie come quella del Covid.16

Permetterebbe anche, tuttavia, di implementare una pericolosa tecnologia di controllo iper-invasiva, molto di più di quanto non lo sia già oggi, e i nostri, uomini liberal-democratici, lo sanno bene:

“La perenne preoccupazione espressa da legislatori, accademici e sindacalisti è che gli strumenti di sorveglianza rimarranno probabilmente in vigore dopo la crisi, anche quando un vaccino sarà finalmente trovato, semplicemente perché i datori di lavoro non hanno alcun incentivo a rimuovere un sistema di sorveglianza una volta che è stato installato, in particolare se uno dei benefici indiretti della sorveglianza è quello di controllare la produttività dei dipendenti. Questo è quello che è successo dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. In tutto il mondo, nuove misure di sicurezza come l’impiego di telecamere diffuse, la richiesta di carte d’identità elettroniche e la registrazione di dipendenti o visitatori in entrata e in uscita sono diventate la norma. A quel tempo, queste misure erano considerate estreme, ma oggi sono usate ovunque e considerate ‘normali’. Un numero crescente di analisti, politici e specialisti della sicurezza temono che lo stesso accadrà ora con le soluzioni tecnologiche messe in atto per contenere la pandemia. Prevedono un mondo distopico davanti a noi”. (GR, pp.66-67)

Neanche un “vaccino” (ovviamente conditio sine qua non aprioristica per l’uscita dalla “pandemia”, secondo una narrazione in voga) ci potrà salvare dalla diffusione incontrollata di questo panopticon all’ennesima potenza, una volta avviata la spirale della digitalizzazione totale. Tuttavia, questo passaggio “digitalizzante” sembra essere inevitabile, come abbiamo capito: ufficialmente per ragioni “sanitarie” ma, soprattutto, in funzione del rilancio di un sistema in profonda sofferenza da ben prima che tutto questo putiferio virale avesse inizio. Il rischio, molto concreto e di fatto già in essere,17 è quello di un “capitalismo della sorveglianza”.18 Dunque? Per trovare una risposta, ancora una volta i nostri danno prova di una versatilità sorprendente, e tornano a rivolgersi alla filosofia:

“Spinoza, il filosofo del XVII secolo che resistette per tutta la vita all’autorità oppressiva, disse notoriamente: ‘La paura non può essere senza speranza né la speranza senza paura’. Questo è un buon principio guida per concludere questo capitolo, insieme al pensiero che nulla è inevitabile e che dobbiamo essere simmetricamente consapevoli di entrambi esiti buoni e cattivi. Gli scenari distopici non sono una fatalità. È vero che nell’era post-pandemica, la salute e il benessere personali diventeranno una priorità molto maggiore per la società, motivo per cui il genio della sorveglianza tecnologica non sarà rimesso nella bottiglia. Ma spetta a chi governa e a ciascuno di noi personalmente controllare e sfruttare i benefici della tecnologia senza sacrificare i nostri valori e le nostre libertà individuali e collettivi”. (GR, p.68)

“Nulla è inevitabile” e “gli scenari distopici non sono una fatalità”, certo, ma ci aspettavamo un esito più raffinato, dati i presupposti. Invece i nostri concludono richiamando ad una maggiore responsabilità morale gli Stati e comunque chi dovrà gestire e prendersi le responsabilità legate a questo passaggio che, come si è capito ed è stato più volte ribadito, sembra inevitabile. Da bravi liberali, rimettono le sorti dell’umanità iper-controllata e iper-disciplinata ad un generico appello alla coscienza e alla consapevolezza del rischio da parte di chi terrà in pugno le leve del comando. Da bravi democratici, girano anche a ciascuno di noi l’onere della verifica e la richiesta di un maggior controllo, affinché la situazione non degeneri in uno scenario di stampo orwelliano. Da bravi liberal-democratici, tuttavia, sottovalutano ampiamente le necessità strutturali di un sistema sociale che ha bisogno di incamminarsi in una certa direzione proprio per la sua sopravvivenza. Ma il “soggetto automatico”19 non rende conto a nessuno del proprio operato: come un animale ferito, prosegue per quella che è la sua strada, e chiunque o qualsiasi cosa intralci il suo pesante e pericoloso cammino, deve essere messo da parte, con le buone o le cattive. Contrapporsi a questo cammino è cosa tutt’altro che facile, e pensare di riuscirci facendo semplicemente appello alla buona coscienza dei governanti o di popoli addomesticati da media e luoghi comuni serve solo, forse, a rendere un buon servizio a quello stesso sistema che si vorrebbe modificare e riformare in meglio. Ma probabilmente, in realtà, non è questa la preoccupazione principale dei nostri due eroi. Anzi, senza probabilmente.

Si tratta invece, in buona sostanza, di capire come rilanciare il mondo (leggi: l’economia) dopo il covid, e in questo senso è stato pensato il “Great Reset” e tutta la sua architettura. Qualche malpensante potrebbe pensare: grazie al covid. In ogni caso, questa è sicuramente la preoccupazione più pressante che tiene sulle spine i nostri amici. Abbiamo visto che si tratta di proporre e strutturare un reset generale, di cui sicuramente il mondo ha gran bisogno – anche se non esattamente nella direzione che illustrano i due maître à penser, ma questo è un altro discorso. Nella direzione in cui intendono i due, questa “ristrutturazione globale” dovrebbe passare per un reset economico, che abbia come perno una produzione “sostenibile” e green e si basi sulla tecnologia a traino digitale più avanzata, al tempo stesso, anzi proprio grazie a questa, salvaguardando i livelli di occupazione, addirittura fornendo occasioni nuove di impiego, all’interno di una global governance che sappia evitare la temibile “anarchia sociale” post-pandemica ma incanali invece globalmente il mondo verso un’amabile epoca di democrazia diffusa, persino capace di dominare le eventuali derive autoritarie che le stesse tecnologie usate renderebbero possibili. Praticamente il comunismo, penserà qualcuno. Ma, nello specifico, dove e come intervenire? Occorre uno sguardo più nel dettaglio, e passiamo qui infatti al MICRO RESET.

Al Micro-reset i nostri dedicano decisamente meno pagine rispetto al Macro. Innanzitutto perché il più e l’essenziale è stato detto, poi perché entrare nello specifico e provare a delineare come dovrebbe essere questo meraviglioso mondo del domani non è così semplice e lineare come potrebbe sembrare. Vediamo come ne escono i nostri.

“Siamo ancora nei primi giorni dell’era post-pandemica, ma potenti tendenze nuove o accelerate sono già all’opera. Per alcune industrie, queste si riveleranno una manna, per altre una grande sfida. Tuttavia, in tutti i settori, spetterà ad ogni azienda trarre il massimo da queste nuove tendenze adattandosi con celerità e risolutezza. Le aziende che si dimostreranno più agili e flessibili saranno quelle che emergeranno più forti”. (p.70)

Ancora una volta fedeli al diktat neoliberista, i nostri mettono subito in chiaro come la pensano: arrivati a questo punto tutto cambia, tutto diventa green e sostenibile, si aprono nuove brillanti prospettive e la possibilità di un mondo migliore… ma solo per chi se lo potrà permettere, ovvero per chi riuscirà a raccogliere la sfida epocale a cui andiamo incontro e dare corpo a questo meraviglioso nuovo corso. In soldoni, a chi riuscirà ad essere più competitivo e determinato. In altre parole, la solita legge del più forte: vincerà, e sopravviverà, solo chi nella nuova giungla saprà districarsi meglio fra le sfide che ci attendono. E, soprattutto, ne avrà i mezzi economici.

Senza brillare per originalità, dunque, i nostri ci ripropongono una ricetta un attimo nota da qualche tempo a questa parte. Ma come si delinea, a questo punto, nella presunta epoca “post-covid”, questa non troppo nuova ricetta? In che termini si realizza, da un punto di vista “micro”?

Innanzitutto, ancora il mantra della “digitalizzazione”, più o meno forzata: le imprese e più in generale il business devono velocemente adeguarsi alle nuove “esigenze”. Zoom, Amazon, Walmart, Alibaba, Deliveroo e compagnia bella, anzi brutta, segnano la strada e indicano il percorso. Vasti settori beneficeranno di questa “manna”, l’e-commerce è destinato a diventare il primo motore del commercio mondiale, e i giganti dell’on-line usciranno rinforzati da questa “crisi pandemica”.

Tuttavia, tutta questa meravigliosa rinascita industriale e mercantile dovrà essere supportata politicamente, se non si vuole perdere l’opportunità epocale che oggi si presenta in tutto il suo splendore. Il Covid-19, infatti,

“ha riscritto molte delle regole del gioco tra il settore pubblico e quello privato. Nell’era post-pandemica, il business sarà soggetto a interferenze governative molto maggiori rispetto al passato”. (p.72)

Questo dovrebbe significare anche una maggior protezione verso il lavoro salariato e più attenzione all’esternalizzazione dei servizi, che in qualche modo dovrebbe essere disincentivata. Naturalmente, ça va sans dire, per le aziende che, nel frattempo, saranno riuscite ad adeguare il proprio standard al livello richiesto, e saranno riuscite a sopravvivere al ciclone pandemico.

ESG è l’acronimo guida di questo passaggio fondamentale. ESG sta per Environmental, Social and Governance, cioè Ambiente, Sociale e “Regole per Governare” (traduciamo così Governance, che comunque è oramai una parola in uso, e piena di significato, anche nella nostra lingua). Ogni governo della post-pandemia dovrà tenere presenti questi tre aspetti, se vorrà avere qualche speranza di successo. Cura dell’ambiente, degli aspetti sociali e del vivere “democratico” devono essere il terreno di coltura del mondo a venire, che sarà ovviamente resiliente e sostenibile. Ci sono, naturalmente, segnali incoraggianti in questo senso:

“La convinzione che le strategie ESG abbiano beneficiato della pandemia e che molto probabilmente ne beneficeranno ulteriormente è corroborata da vari sondaggi e rapporti. I primi dati mostrano che il settore della sostenibilità ha sovraperformato i fondi convenzionali durante il primo trimestre del 2020. Secondo Morningstar, che ha confrontato i rendimenti del primo trimestre per più di 200 fondi azionari sostenibili e fondi negoziati in borsa, i fondi sostenibili hanno avuto una performance migliore di un punto percentuale o due, su base relativa. Un rapporto di BlackRock offre un’ulteriore prova che le aziende con forti valutazioni ESG hanno sovraperformato i loro pari durante la pandemia”. (p.74)

Naturalmente, il fatto che qualcuno abbia beneficiato sin da subito del nuovo corso e, grazie a questa “svolta”, ricevuto un immediato vantaggio finanziario, non deve farci pensar male: tutto legittimo, perché questa è la strada giusta, per così dire, e certe aziende l’hanno capito prima di altre. E, l’abbiamo capito, il “nuovo mondo” sarà, comunque, sotto costante monitoraggio, e sarà proprio il diffuso attivismo sociale, scatenato anch’esso dalla pandemia, il miglior guardiano della correttezza e del rispetto delle nuove regole, così che tutto fili liscio come l’olio. Non di ricino, si spera.

Nuovi comportamenti, indotti dalla pandemia, diventeranno la nuova normalità: dal lavoro, o lo studio, da remoto, all’acquisto on line, ad una maggiore attenzione per l’igiene, il distanziamento e via dicendo, tutte queste modalità inizialmente transitorie acquisteranno uno status permanente. La “casa”, in questo senso, acquisterà una maggiore centralità, e con essa il digitale, che ancora una volta viene indicato come l’ennesimo deus- ex-machina del cambiamento. A Big Tech, quindi, il ruolo di guidare la transizione – verso un mondo a guida digitale:

“In generale, Big Tech è stata l’industria resiliente per eccellenza, perché è emersa da questo periodo di cambiamento radicale come il maggior beneficiario” (p.82)

e ogni azienda deve, dunque, ispirarsi ad essa e alla sua capacità di resistere, traendone vantaggio, dallo sconvolgimento tuttora in corso – oltre che, ovviamente, aprirsi alle indispensabili innovazioni che questo settore porta con sé:

“Il micro reset costringerà ogni azienda in ogni settore a sperimentare nuovi modi di fare business, lavorare e operare. Quelli tentati di tornare al vecchio modo di fare le cose falliranno. Quelli che si adatteranno con agilità e immaginazione finiranno per volgere la crisi del COVID-19 a loro vantaggio”. (p.84)

Ma ogni cambiamento radicale, perché sia veramente tale, ha bisogno anche della partecipazione di tutti e di ciascuno, anche proprio presi singolarmente. Occorre, in altre parole, portare felicemente a compimento il “reset” anche individuale che la pandemia ha avviato e che è determinante ai fini del buon esito della società digitale post-pandemica del futuro prossimo venturo. Per far questo, è necessario “ridefinire la nostra umanità”, e qui si passa all’ultimo, ma non meno importante, capitolo di questo “Grande Reset”.

In che modo si “ridefinisce” il nostro essere umani? Una volta di più, il Bel Paese torna a fare da modello. L’Italia, il “paese più duramente colpito”, il primo ad aver imposto un lockdown duro (e ad aver fatto da esempio agli altri paesi) e via peanando, ci mostra la strada. Solidarietà creativa, canti dai balconi, inviti alla speranza, aiuti reciproci, parole gentili e tutte queste belle cose, inizialmente in Italia poi in tutto il mondo, sono fenomeni venuti alla ribalta, e una speranza si è aperta nei cuori di chi sogna un cambiamento generale importante. Dunque, un altro mondo sembra essere veramente possibile. Bisogna solo vedere, certo, di che altro mondo si parla.

Ma storicamente, ci avvertono i nostri, le pandemie allontanano, invece di unire ed avvicinare. Per restare nel paese italico, Boccaccio ci insegna che padri e madri abbandonano i figli in tempo di pandemia, e allo stesso modo Manzoni mette in guardia nei suoi Promessi sposi sugli esiti nefasti delle epidemie. Dunque, Italia magistra mundi, sia nel bene che nel male. Come, allora, far sì che la pandemia attuale porti ad un risultato positivo, di cui beneficiare collettivamente, e non ad una sorta di assalto ai forni mondiale, come potrebbe far pensare, invece, l’esperienza storica?

“Gli esempi delle pandemie precedenti non sono molto incoraggianti, ma questa volta c’è una differenza fondamentale: siamo tutti consapevoli che senza una maggiore collaborazione, non saremo in grado di affrontare le sfide globali che collettivamente dovremo affrontare. Detto in termini più semplici: se, come esseri umani, non collaboriamo per affrontare le nostre sfide esistenziali (l’ambiente e la caduta libera della governance globale, tra le altre), siamo condannati”. (p.87)

Dunque, ancora una volta tutti insieme, senza distinzione, uniti verso una causa comune. Tutti sullo stesso piano, ovviamente. Vediamo come.

Innanzitutto, occorre imparare a prendersi cura del “bene comune”. Ma, prima ancora, occorre stabilire cosa sia questo “bene comune”. Non è scontato che sia la stessa cosa per tutti:

“Il bene comune è ciò di cui beneficia la società nel suo insieme, ma come facciamo a decidere collettivamente ciò che è meglio per noi come comunità? Si tratta di preservare la crescita del PIL e l’attività economica ad ogni costo per cercare di evitare l’aumento della disoccupazione? Si tratta di prendersi cura dei membri più fragili della nostra comunità e fare sacrifici l’uno per l’altro?”. (p.88)

Non è neanche scontato come lo si debba perseguire. Occorre passare per la difesa delle libertà individuali? Occorre privilegiare il miglior risultato per la maggior numero di persone possibile, anche a discapito di alcune minoranze? Tutto questo solleva problemi morali, affermano perentoriamente i nostri, e di un certo rilievo. Per esempio, per tornare una volta di più in Italia, molti dei decessi – continuano – hanno riguardato persone più che ottantenni con varie patologie. Questo ci autorizza a prendere alla leggera la pandemia? Altro esempio: l’OMS consiglia di tenere le mascherine, ma molti protestano perché la considerano una violazione della libertà personale, per esempio negli USA. Dunque?

Si tratterà, con ogni probabilità, di rimettere in gioco altre variabili, che possono aiutarci nella scelta. Ad esempio, l’equità, la necessità della cooperazione e la solidarietà. Ma queste virtù sono veramente possibili nell’epoca del capitalismo avanzato a guida tecnologica?

“La pandemia COVID-19 ha mostrato inequivocabilmente a tutti noi che viviamo in un mondo interconnesso e tuttavia largamente privo di solidarietà tra le nazioni, e spesso anche all’interno delle nazioni. Durante i periodi di lockdown, sono emersi notevoli esempi di solidarietà personale, insieme a controesempi di comportamento egoista. A livello globale, la virtù dell’aiuto reciproco è stata evidente per la sua assenza … Il COVID-19 porterà le persone a chiudersi in se stesse, o alimenterà il loro innato senso di empatia e collaborazione, incoraggiandole verso una maggiore solidarietà? Gli esempi delle pandemie precedenti non sono molto incoraggianti, ma questa volta c’è una differenza fondamentale: siamo tutti collettivamente consapevoli che, senza una maggiore collaborazione, non saremo in grado di affrontare le sfide globali che dobbiamo affrontare insieme. Detto in termini più semplici: se, come esseri umani, non collaboriamo per affrontare le nostre sfide esistenziali (l’ambiente e la caduta libera della governance globale, tra le altre), siamo condannati”. (p.87)

Se gli esempi del passato non sono confortanti, decisamente non lo sono neanche i fatti del presente. Come sappiamo, la pandemia si innesta in un momento storico di crisi sistemica, che l’ha preceduta, e di molto. Gli individui da lungo tempo hanno perso la capacità di provare empatia per il prossimo, specie a livello collettivo, e vivono piuttosto in un mondo posticcio alimentato dalle aggressive letture allarmistiche dei media, che tendono prevalentemente a ridurre e interpretare l’esistente secondo coordinate anguste e consone alle esigenze del potente di turno. Tutto questo si manifesta, già da tempo, in fenomeni di sofferenza psichica ed esistenziale. La “pandemia”, con le misure di distanziamento, di chiusura etc., ha reso più acuto questo tipo di problematica, e con essa non è possibile non fare i conti, se si vuole promuovere questo famoso grande reset collettivo.

“L’impatto del COVID-19 ha dato origine a una serie più ampia e profonda di problemi di salute mentale … Tuttavia, ciò che la pandemia ha raggiunto rispetto alla salute mentale, come in tanti altri domini, è l’accelerazione di una tendenza preesistente; con questo è arrivata una maggiore consapevolezza pubblica della gravità del problema … Nell’era post-pandemica, questi problemi dovranno ora avere la priorità che meritano. Questo costituirebbe davvero un reset vitale”. (p.93)

Si tratta, allora, di cambiare un po’ anche l’ordine delle priorità. Per esempio, porre all’ordine del giorno questioni come la “creatività”, il “tempo”, il “consumo”, la “natura” ed il “benessere”. Tutto molto bello, potremmo dire. L’“epidemia” dunque ha veramente sortito qualche effetto benefico, se pure dei personaggi come Schwab e Malleret arrivano ad affermare qualcosa del genere, che sembrerebbe uscire radicalmente dallo spettro dell’economicismo e dal suo ordine del discorso.

O almeno dovrebbe. Ma ancora una volta ci siamo illusi, probabilmente, troppo presto: la creatività di cui parlano i nostri non è quella degli spiriti finalmente liberi che si occupano di rendere il mondo un posto veramente bello e felice. Tutt’altro, la loro creatività torna nelle caverne – anzi, non ne è mai uscita – del paradigma economicista, e all’interno di quello cerca i propri spazi:

“Ci sono pochi dubbi, per esempio, che nei prossimi anni assisteremo a un’esplosione di creatività tra le start-up e le nuove imprese negli spazi digitali e biotecnologici. La pandemia ha soffiato i venti nelle vele di entrambi, suggerendo che vedremo una buona dose di progresso e molta innovazione da parte degli individui più creativi e originali in questi settori”. (p.94)

Il tempo, invece, parrebbe sfuggire a questa logica, ed essere richiamato come testimone della necessità di un cambiamento radicale. Là dove, nell’epoca pre-pandemica, il tempo era (ed è) soprattutto velocità, just-in-time, fretta e nevrosi, nella post-pandemica potrebbe diventare ben altro:

“Questo potrebbe essere uno degli inaspettati lati positivi del COVID-19 e dei lockdown. Ci ha reso più consapevoli e sensibili ai grandi indicatori di tempo: i momenti preziosi passati con gli amici e le nostre famiglie, le stagioni e la natura, le miriadi di piccole cose che richiedono un po’ di tempo (come parlare con uno sconosciuto, ascoltare un uccello o ammirare un’opera d’arte) ma che contribuiscono al benessere. Il reset: nell’era post-pandemica, potremmo avere un diverso apprezzamento del tempo, perseguendolo per una maggiore felicità”. (pp.95-96)

Ed anche una riflessione sul consumo sarebbe urgente: la pandemia ci ha mostrato in modo drastico e radicale che il consumo compulsivo legato ad una produzione frenetica e spesso insensata porta alla distruzione del mondo. Il rischio è che a fine pandemia tutto riprenda come prima, anzi con maggior vigore, perché c’è pure da riguadagnare il tempo perduto. Ma non è questa la strada giusta: piuttosto sarebbe il caso di avviarci verso una maggiore frugalità, rispettosa dell’ambiente e del mondo. In questo senso, potrebbe essere utile, secondo i nostri, ispirarci al giappone e alle sue filosofie. Praticare lo “ikigai”, cioè la ricerca continua del senso della vita, o fare i “bagni di foresta” (shirin-yoku) sono solo due indicazioni fra le tante da seguire.

“Un fenomeno simile può essere osservato nei paesi nordici, dove il consumo eccessivo è disapprovato e impedito. Ma niente di tutto ciò li rende meno felici, al contrario. Come gli psicologi e gli economisti comportamentali continuano a ricordarci, il sovraconsumo non equivale alla felicità. Questo potrebbe essere un altro reset personale: la comprensione che il consumo eccessivo di qualsiasi tipo non fa bene né a noi né al nostro pianeta, e la conseguente realizzazione che un senso di appagamento e soddisfazione personale non deve dipendere dal consumo incessante – forse è proprio il contrario”. (p.96)

L’invito è a rivolgersi verso la natura, ad andare verso di essa piuttosto che contro di essa. A non considerarla più come una sorta di nemico da domare, ma come un alleato da rispettare ed amare. Il contatto con la natura può essere salvifico, e si tratterà di imparare anche questa lezione:

“Neuroscienziati, psicologi, medici, biologi e microbiologi, specialisti nell’educazione fisica, economisti, scienziati sociali: tutti nei loro rispettivi campi possono spiegarci perché la natura ci fa sentire bene, come allevia il dolore fisico e psicologico e perché è associata a così tanti benefici in termini di benessere fisico e mentale. Al contrario, possono anche mostrare perché essere separati dalla natura in tutta la sua ricchezza e varietà – la fauna, gli alberi, gli animali e le piante – influisce negativamente sulle nostre menti, i nostri corpi, le nostre vite emotive e la nostra salute mentale. Il COVID-19 e i costanti richiami delle autorità sanitarie a camminare o fare esercizio ogni giorno per tenersi in forma pongono queste considerazioni in primo piano”. (p.97)

A proposito di lockdown, ci sarebbe da aggiungere.

Come non condividere queste conclusioni? Schwab e Malleret ci indicano chiaramente la strada, che è quella linda e pulita del green eterno, del rispetto dell’ambiente e del mondo, e dell’inaugurazione di uno stile di vita post-pandemico più attento alla felicità e al benessere delle persone, nessuno escluso.

Perché però qualcosa ci dice che queste parole, così belle e così piene di speranza, capaci anche di motivare e anzi fondare le ragioni per le quali questo tipo di trasformazione sarebbe necessaria e anche possibile, sembrano un po’ artificiali e, in cuor nostro, sappiamo che niente si realizzerà di quanto auspicato dai nostri due eroi, un po’ come le promesse fatte durante le varie assise ecologiste mondiali, e il mondo continuerà piuttosto ad andare alla deriva come prima, se non peggio, come niente fosse?

I nostri sono, comunque, coscienti del rischio, e non per caso nelle pagine conclusive ripetono con insistenza il mantra “non perdiamo questa occasione”. Il “Grande Reset” è necessario ora:

“Non agire equivarrebbe a lasciare che il nostro mondo diventi più cattivo, più diviso, più pericoloso, più egoista e semplicemente insopportabile per ampi segmenti della popolazione mondiale. Non fare nulla non è un’opzione praticabile”. (p.98)

Si tratta, come detto, soprattutto di imparare ad agire insieme, a cooperare. Ci sono emergenze mondiali da affrontare: il nucleare, il cambiamento climatico, l’uso insostenibile delle risorse, la disuguaglianza sociale. Dunque?

“Ora siamo ad un bivio. Un percorso ci porterà ad un mondo migliore: più inclusivo, più equo e più rispettoso di Madre Natura. L’altro ci porterà a un mondo che assomiglia a quello che abbiamo appena lasciato ma peggiore e costantemente perseguitato da brutte sorprese. Dobbiamo quindi fare le cose per bene. Le sfide incombenti che si profilano potrebbero essere più importanti di quanto abbiamo creduto di immaginare fino ad ora, ma la nostra capacità di resettare potrebbe anche essere più grande di quanto abbiamo osato sperare in precedenza”. (p.100)

Ma come si prende la strada “buona” di questo bivio? Basta volerlo? E chi potrà e dovrà “volerlo”? Saranno i giovani a imporre questo percorso ai “grandi” e ai potenti, spronandoli nello stile dei “blablabla” di Greta Thunberg? Oppure?20

Oppure, se vogliamo essere veramente realisti ed uscire finalmente fuor di metafora, dobbiamo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che all’interno del sistema sociale vigente una via d’uscita non c’è. Le “buone intenzioni” di Schwab e Malleret, le proteste di Greta e dei suoi, le varie manifestazioni di insofferenza verso un mondo che è veramente arrivato ad un limite estremo e pericoloso, non porteranno da alcuna parte, se non si interviene ad un livello più profondo e strutturale. È lo stesso approccio che oramai proviene da decenni da una sinistra sfiancata e depressa, incapace di vedere la catastrofe incombente ed intervenire in modo appropriato e critico verso un sistema che diventa di momento in momento più pericoloso e criminale, nella misura in cui affonda nelle sue proprie contraddizioni. Ma la “sinistra” forse è sempre stata, in realtà, niente di più di una sorta di “aggiustamento strutturale” del sistema, che ha contribuito in modo decisivo a rendere più funzionale e perfezionato. Diversa è la prospettiva “comunista” (da non confondersi con ogni esperienza di “socialismo reale”, passata o presente che sia), inagurata da Marx, che si muove su ben altro terreno ed ha come compito storico la dissoluzione del sistema del capitale. Ma in un modo tale che, nella miseria dell’oggi, manco più riusciamo, forse, a intravedere.

Occorre, dunque, ben altro sguardo e ben altra determinazione. Vogliamo qui citare, a mo’ di chiosa finale e di suggestione, un paio di interventi di Robert Kurz, co-fondatore della corrente di pensiero della Wertkritik (critica del valore) e lucido analista del sistema capitalistico contemporaneo:

“Il problema non consiste più nel rivendicare il ‘plusvalore sottratto’ o lo ‘scambio equo’, ma piuttosto nel superamento di un modo di produzione fondato sulle categorie del valore e dello scambio di merci, ormai inconciliabile con il grado di socializzazione (globale)”.21

“Il fatto che la produzione dei beni concreti e la soddisfazione dei bisogni umani siano separate da un astratto processo di valorizzazione – totalmente cieco nei confronti della realtà materiale – dall’autovalorizzazione del valore o dall’accumulazione del capitale monetario, con la sua produzione paradossale di povertà di massa proprio in virtù della produzione di ricchezza, rappresenta una vera e propria assurdità e un ‘certificato di infermità mentale’ per la ragione della modernità produttrice di merce”.22

È arrivato il momento, con ogni probabilità, di intervenire alla base, andare a sfidare la struttura più interna del sistema, il terreno stesso su cui poggia, aprire la “porta dei sette sigilli” dietro la quale si nasconde il segreto di pulcinella del capitalismo, e lavorare su quel livello. Questo significa rimettere in questione punti chiave solo apparentemente intoccabili e inaggirabili, come lo Stato, il denaro, il mercato, la merce, il lavoro, il primato dell’economia.23

Un pensiero come quello dei due estensori del “Great Reset” e dei suoi più o meno involontari epigoni, invece, è votato allo scacco e al fallimento, anche volendogli riconoscere la buona fede e un sincero desiderio di miglioramento delle sorti della “condizione umana” – sia pur guidato dal calcolo del rendimento sufficiente. Questo tipo di approccio brancola nel buio, mentre l’unica realtà che si sta delineando con sempre più nettezza, e di cui la vicenda Covid fa parte a pieno titolo, è l’imbarbarimento globale, a tutti i livelli. Un movimento che potrà sperare di contrapporsi a questa tendenza, con qualche probabilità di invertirla, non dovrà dunque poggiare le proprie speranze su tesi illusorie e inefficaci, come quelle che vedono nella svolta green un passaggio di salvezza del mondo, ma dovrà con coraggio guardare in faccia la situazione che si è andata creando e, alla luce di una lettura critica e storicamente avvertita, inaugurare un percorso deciso e lucido che porti verso una possibile uscita da quello che, allo stato attuale, sembra un cul de sac senza sbocco e senza ritorno. Un movimento che non potrà che essere globale, pur con le sue specificità, sulla scorta, giusto per fare un esempio, di quello di Seattle di inizio millennio che, pur con le sue molte imperfezioni, insufficienze e ingenuità, ha dato in nuce un’idea di come potrebbe prendere forma una protesta collettiva globale – ma che dovrebbe, questa volta, saper andare alla radice del problema, quindi più a fondo nell’analisi e, anche, nella proposta. Un movimento di cui non si vede neanche l’ombra, per dirla tutta, specie in tempi di pandemia che hanno determinato, questo sì, l’annichilimento pressoché totale di ogni istanza di “sovversione” dello stato di cose esistente. Ma l’alternativa è la catastrofe sociale ed esistenziale, peraltro già in corso, e non possiamo accettare che tutto questo avvenga senza perlomeno aver provato ad incepparne il meccanismo.

Joe Galaxy

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Note:
1: Per esempio qui
2: Per esempio qui o qui
3: Esiste comunque già un efficace resoconto, con lettura non banale, di questo testo, a cui rimando chi vuole ulteriormente approfondire: https://cambiailmondo.org/2021/03/27/klaus-schawb-e-thierry-malleret-covid-19-the-great-reset/
4: https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/davos-2021-great-reset-29071
5: Cf per esempio questo “allarme” del 2018: https://www.dire.it/26-03-2018/186792-presto-nuova-pandemia-allarme-virologi-congresso-vaccini/
6: Cf. cap.XVI di La Q di Qomplotto, dal titolo Perché il debunking non funziona, pp.253-270, Alegre 2021
7: A questo proposito potrebbe essere molto utile la lettura del testo di Robert Kurz Ragione sanguinaria, Mimesis, 2014, dedicato appunto ad una disamina critica della razionalità illuministica
8: E comunque un po’ di “sinistra classica” sembra accorgersene, per esempio qui, soprattutto nell’ultimo paragrafetto dedicato proprio al “grande reset” dove si sottolinea, con una certa sagacia, come il tanto vituperato Stato torni, una volta di più a fare da stampella al grande capitale in crisi
9: https://www.avantionline.it/draghi-socialista-liberale/. Ricordiamo per i distratti che Draghi è colui che ha inauguato la mitologica stagione delle privatizzazioni quando era Direttore Generale del Ministero del Tesoro negli anni ’90, poi a partire dal nuovo millennio è stato Managing Director di Goldman Sachs, una delle banche d’investimento più aggressive presenti sul mercato, indi governatore della Banca d’Italia, da dove ha ripetutamente invocato riforme del mercato del lavoro e delle pensioni, infine presidente della BCE, dove si e’ fatto notare, insieme ai due degni compari della famosa Troika, cioè Commissione europea e Fondo Monetario Internazionale, per aver guidato l’attacco alla Grecia “ribelle”, tagliandole una importante linea di credito e causandone una crisi molto grave, risolta poi ovviamente con la resa incondizionata di questo paese. Un socialismo molto liberale, decisamente. Da non dimenticare anche che il nostro Mario, eccellenza italiana, è pure prestigioso membro “senior” del famoso gruppo dei 30. Decisamente una carriera, nel grande capitale, di tutto rispetto
10: Questo nonostante le ripetute invocazioni all’intervento dello Stato e delle poco più che simboliche Istituzioni internazionali. Ma Stato e Istituzioni fanno parte del gioco, e ancora una volta si sbaglia chi crede, ingenuamente, che questi enti siano antagonisti al capitale e in qualche modo siano nati per “combatterlo”. Ma questo è (quasi) un altro discorso, che va su un piano forse più complicato e sicuramente non oggetto della presenta disamina, per cui lo lasciamo cadere qui, sperando di riprenderlo, prima o poi, con una trattazione adeguata e con la dovuta attenzione. Su questi temi invitiamo comunque alla lettura del testo di Robert Kurz Il capitale mondo, di prossima uscita per le edizioni Meltemi
11: Tuttavia imputare la débacle economica al mero impatto della pandemia da Covid 19 sarebbe quanto meno una leggerezza o una scusa non giustificabile. La crisi economica strutturale è esplosa almeno dalla crisi dei subprime del 2008, e nonostante qualche alto e basso, non è mai venuta meno ed è ben lungi dal farlo. Il Covid 19 si innesta dunque in questo percorso apparentemente senza fine. Come per tutte le crisi che si rispettino, comunque, alcune parti del grande capitale ne hanno tratto profitto sin da subito (anche se la massa di valore globale è diminuita), e la situazione non è cambiata con la pandemia in corso, anzi è forse peggiorata (o migliorata, dipende dal punto di vista da cui la si guarda). In soldoni, l’immiserimento economico si è consolidato per le fasce a basso reddito delle popolazioni, che sono per di più aumentate di numero, mentre il grande capitale ha incrementato le proprie rese, con prospettive addirittura rosee. Cf. per esempio questo articolo
12: Per una critica articolata al concetto di “sviluppo sostenibile” rimando alla riflessione di un autore, Serge Latouche, spesso inviso a sinistra ma di fatto critico implacabile di quel concetto e in modo tutt’altro che superficiale, nonostante gli venga sistematicamente attribuita una chiave di lettura compatibile con il sistema capitalistico. In ogni caso, dobbiamo sempre chiederci come e quanto possa mai essere sostenibile – per la natura, per gli esseri umani, per il mondo – un’economia sempre alla ricerca del profitto che deve, a questo scopo, necessariamente ottimizzare i costi, specie in un momento di “crisi fondamentale” come questo
13: Per riprendere un linguaggio althusseriano (cf https://ilmanifesto.it/lastrazione-concreta-di-louis-althusser/), qui forse un attimo “detournato”
14: Definizione coniata in un famoso numero del Time. Cf. http://content.time.com/time/covers/0,16641,19990215,00.html. Si trattava, all’epoca (1998/1999) di tre celebri economisti e personaggi politici, Robert Rubin, Alan Greenspan e Larry Summers, convocati d’urgenza dal Tesoro americano per cercare di risolvere la “crisi asiatica” ed altre magagne legate all’ennesima crisi di reddività capitalistica
15: https://www.weforum.org/agenda/2016/01/the-fourth-industrial-revolution-what-it-means-and-how-to-respond/, ed. it. La quarta rivoluzione industriale, Franco Angeli ed., 2016, prefazione non casuale di John Elkann
16: Tentativi ne sono stati fatti anche qui da noi, nella semi-periferica italietta, che comunque per questo tipo di dispositivi tanto periferica non sembra, visto che spesso funge da guida per il mondo intero. Inizialmente con la famosa app Immuni, che si è rivelata un flop clamoroso, visto che nessuno la scaricava ma soprattutto dava segnalazioni tutt’altro che attendibili. Adesso con il ben più temibile Green Pass, dispositivo di controllo che solo con una certa dose di fantasia è possibile definire di utilità sanitaria, dato che spesso crea solo l’illusione di impedire il contagio, mentre finisce invece per favorirlo. Molto più funzionale invece come dispositivo di controllo sperimentale tout court, compito che assolve in maniera egregia
17: La diffusione e l’utilizzo di Google sta a mostrarlo. Attraverso quel motore di ricerca finiamo di fatto all’interno di una rete di tracciamento quasi inestricabile. Per liberarcene, e disintossicarci, può essere utile la lettura di questo articolo dei Wu Ming: https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/degoogling/
18: https://it.wikipedia.org/wiki/Il_capitalismo_della_sorveglianza
19: “Soggetto automatico” (automatisches Subjekt) è l’espressione che usa Marx ne Il Capitale per definire il meccanismo capitalistico che, una volta insediatosi e radicatosi, funziona quasi per conto proprio, con una sorta di costante moto inglobante di ritorno a sé nella forma del valore/denaro. Cf.https://www.filosofico.net/Antologia_file/AntologiaM/Marx_19.htm. Per una infarinatura del concetto e del contesto teorico in cui matura, può essere utile la lettura di questo articolo di Riccardo Bellofiore
20: Ad uno sguardo disincantato e giustamente avvertito, quando i nostri due eroi scrivono con passione delle sorti del mondo e si accalorano sulle sue storture, invitando ad una uscita green, torna alla memoria un testo scritto da un falso Berlinguer del 1977. In quel notevole anno uscì infatti, fra altri altrettanto degni di lettura, un testo di un certo spessore, in forma di epistolario indirizzato alla “nuova sinistra”, dal titolo Lettere agli eretici, il cui autore dichiarato era Berlinguer. Ovviamente era un abile falso, che chiunque dotato di un minimo di raziocinio avrebbe riconosciuto come tale sin dalle prime righe. Quanto all’autore reale, sono girate varie e molte voci su chi fosse e con ogni probabilità lo sappiamo, ma a noi piace qui mantenerlo nel mistero, come se fosse la personificazione di una coscienza critica sociale diffusa, in quel momento storico, e di un pensiero ancora sociale e altrettanto critico e acuto, quanto ironico. Qualcosa di cui sentiamo molto la mancanza, nei nostri grami tempi. In questo fortunato quanto abile libello è possibile incontrare un capitolo, l’ottavo, dal titolo Dove si auspica la degradazione dell’ambiente, purché in forma pianificata. Consiglio a chiunque la lettura di questo illuminante capitoletto, di poche pagine ma dense e significative, e quanto mai divertenti. Chi non sapesse come procurarselo, non ha che da scaricarlo qui
21: Das Weltkapital, Edition Tiamat, 2005, p.48 – tr.it. in corso
22: Das Weltkapital, Edition Tiamat, 2005, p.74 – tr.it. in corso
23: La qual cosa non significa, ovviamente, che non sia possibile una organizzazione sociale complessa e funzionale, questa volta però indirizzata verso i bisogni dell’umano e della natura, quindi migliore e più efficiente dello Stato, non sia possibile uno scambio senza il medium del denaro, più libero e non vincolato ai diktat della solvibilità o della reddività, non siano possibili luoghi di incontro aperti e comunicanti dove avviene questo scambio che non siano lo squallido e opprimente mercato, non sia possibile la produzione di beni che non sia merce, non sia possibile l’attività sensata, produttiva (nel senso migliore del termine) e magari anche felice che non sia il soffocante, ossessivo, spesso assurdo e pericoloso lavoro e non sia possibile un rapportarsi fra umani che non debba soggiacere alle forche caudine degli ottusi criteri dell’economia politica. Tutti concetti che dovrebbero essere in qualche modo familiari, anche solo vagamente, a chi naviga entro gli orizzonti di chi vuole e sente l’esigenza di cambiare il presente stato delle cose, ma che invece ultimamente sembrano quanto mai alieni dal pensare “di sinistra” e che, quindi, è bene ribadire, di tanto in tanto

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