In morte di Fares. Una piccola storia ignobile

“-I livornesi chiedono più sicurezza più controlli poi se un tunisino scappa e affoga nei fossi fanno le manifestazioni. Se era in regola non sarebbe scappato….
-Era già conosciuto alle forze dell’ordine e qui dice tutto…
-Perché stava scappando? Forse aveva qualche problema? Se hai la coscienza pulita non scappi ma affronti.
-Ma che vergogna, questi fino a ieri vivevano nel deserto e mangiavano sabbia, oggi comandano a casa nostra… Che schifo
-A casa vostra e chi vi appoggia con voi
-Ieri mattina nella zona mia c’è ne era uno alle 8 di mattina di domenica che suonava tutti i campanelli”

commenti su Facebook – 25/04/21

“Dei proletari non si può avere alcun timore. Lasciati a se stessi, continueranno di generazione in generazione e di secolo in secolo a lavorare, a riprodursi e a morire, non solo senza alcun istinto alla rivolta, ma anche senza la capacità di comprendere che il mondo potrebbe essere diverso da come è… Del tutto irrilevante è stabilire che cosa pensino o non pensino le masse. Abbiano pure tutta la libertà intellettuale: tanto, sono prive d’intelletto.”

George Orwell – 1984

“Ma che piccola storia ignobile mi tocca raccontare
Così solita e banale come tante
Che non merita nemmeno due colonne su un giornale
O una musica o parole un po’ rimate…”

Francesco Guccini – Piccola storia ignobile

 

il 24 aprile a Livorno è successo un fatto increscioso quanto grave. Un giovane tunisino di 25 anni, Fares Shgater, muore affogato la sera, dopo il famigerato “coprifuoco”, cadendo nei fossi (il canale che attraversa la città) durante un inseguimento da parte delle forze dell’ordine. Sulle modalità della caduta, il perché il come e quant’altro, vige la più profonda oscurità. Le indagini sono in corso, e non dubitiamo che si risolveranno in un nulla di fatto. Ma non è questo il punto. Non intendiamo qui solo alludere a possibili interventi poco ortodossi delle stesse forze dell’ordine, copiose in quel frangente (erano presenti polizia, carabinieri, vigili urbani ed esercito, a quanto ci è dato sapere). Quello che vogliamo qui sottolineare, è la condizione di “braccato” la quale ha fatto sì che la storia avesse questo tragico epilogo. L’atmosfera pesante, di fatto razzista e classista (come dimostrano le citazioni, poche e scelte a caso fra moltissime prese dai commenti su facebook alla tragedia) che caratterizza la città di Livorno, ma certo non solo quella, lo sguardo sempre torvo verso il diverso che occupa i “nostri spazi vitali” (per usare un linguaggio di altri tempi ma efficace per capire la dimensione in cui viviamo), il clima di “guerra fra poveri” che contraddistingue i periodi di forte crisi come questi, tutto ciò ha contribuito a far sì che la vicenda avesse il terribile esito che ha avuto.
Una piccola storia ignobile, per riprendere la citazione dalla famosa canzone di Guccini, citata in esergo. Tanto ignobile che non ha avuto nemmeno l’onore della menzione su una locandina del famoso quotidiano cittadino, solitamente prodigo di titoli in grassetto quando ci sono eventi succulenti di cronaca nera da buttare in pasto al gossip cittadino.
A noi resta solo il dolore per questo ragazzo, che non crederemo mai meritevole di una fine tanto dura e cattiva. A lui vogliamo dedicare questa bella lettera che ci invia Renata Fontanella, una donna il cui cuore racconta meglio di milioni di stupidi commenti su Facebook il dolore di una vita difficile e la voglia di credere che ci sia ancora una speranza per tutti noi.

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La paura, i “nemici interni” e la mascherina all’aperto

“E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribolazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.

Giovanni Boccaccio, Decameron, I

Le riflessioni che svolgerò qui sotto nascono da una premessa teorica molto semplice: l’idea che portare la mascherina all’aperto, in qualsiasi luogo e situazione, sia una grande idiozia. Contrariamente che nei luoghi chiusi, negli spazi aperti è assolutamente improbabile che venga trasmesso un virus influenzale. Ma andiamo a leggere cosa prevede il DPCM del 3 dicembre 2020, l’ennesimo di una sfilza di decreti surreali e contraddittori, in merito all’uso delle mascherine:

«Ai fini del contenimento della diffusione del virus COVID-19, è fatto obbligo sull’intero territorio nazionale di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande».

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Il discorso dominante del vaccino

“Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive
-Giacomo Leopardi, La Ginestra o il fiore del deserto

“Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”
-Dante, Inferno, III, 51

Come il virus, anche il vaccino si è incagliato nella mentalità collettiva sotto forma di discorso dominante. Come il virus è pericolosissimo e estremamente letale per tutti, nessuno escluso, così il vaccino è sicuro per tutti, è l’unica ancora di salvezza nella terribile tempesta scatenata dal Covid 19. Il vaccino si è trasformato in una entità sovrana e perfetta, tanto da assumere alcune caratteristiche divine. Del resto, non c’è da stupirsi, siamo in Italia (che prosegue ottusamente nella campagna vaccinale nonostante siano stati sollevati diversi dubbi in molti paesi europei), un paese saldamente ancorato a un arcaico cattolicesimo ma anche a una diffusa fede per qualsiasi forma di religione e divinità, dal buddismo al Mago Otelma. Lo si poteva prevedere fin dalla fine di dicembre scorso, quando l’arrivo delle prime dosi era stato accolto all’aeroporto come un capo di Stato e scortato da polizia e mezzi militari, quasi si trattasse della Sacra Sindone o del simulacro di una qualche divinità. Re Vaccino I ha fatto così il suo ingresso in Italia.

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Le due facce della salute: quando il lockdown uccide per il nostro bene

In un film del 2009, Dogtooth, uscito nelle sale italiane soltanto tra fine estate e inizio autunno scorsi, poco prima che chiudessero i cinema, il regista greco Yorgos Lanthimos mostra come il controllo a fin di bene possa generare dei veri e propri mostri. In una villa isolata, con un ampio giardino, una ricca famiglia tiene segregati in casa dalla nascita i tre figli adolescenti, un maschio e due femmine, per non farli contaminare dal mondo esterno. Per il loro bene, i tre giovani non devono sapere niente di ciò che c’è al di fuori dei muri della villa perché si tratta di un mondo terribile e dominato dalla violenza. Come nel mito della caverna di Platone, i ragazzi percepiscono solo ombre confuse della realtà, in una situazione di segregazione in cui i genitori stravolgono, a loro uso e consumo, quasi orwellianamente, perfino il significato delle parole. Ad esempio, viene spiegato ai figli che “il mare è una poltrona di pelle”; “l’autostrada è un vento molto forte”; “una carabina è un bellissimo uccello bianco”. Se i figli osano ribellarsi alla macchina del controllo e della segregazione costruita dai genitori solo per il loro bene, vengono sottoposti a violente punizioni e torture fisiche e psicologiche. Il microcosmo della villa si trasforma perciò nella ossessiva metafora di un controllo pervasivo e dittatoriale. Del resto, lo stesso Lanthimos ci offrirà con The Lobster (2015) uno stupendo affresco di una distopica società del futuro, dominata da un’oscura dittatura che impone lo status sociale della coppia.

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