Intervista a Fabio Vighi

Offline: A seconda dei punti di vista, se cioè favorevoli o sfavorevoli al sistema, si parla ultimamente – riferendosi al futuro (anche molto prossimo, praticamente presente) – di distopia o utopia (digitalizzazione, città 15 minuti, credito sociale, intelligenza artificiale etc). A tuo parere, verso quale direzione ci stiamo avviando? Rimanendo inalterata la struttura sociale di fondo, dove approderemo? Quali sono i destini del nostro mondo, fra 100, 500, 1000 anni, domani? Ti chiediamo questo perché crediamo che, nonostante tutto, forse non è scontato che si finisca nel baratro, sociale o ecologico che sia – o almeno non tutti, e non nello stesso modo. Il sistema potrebbe in qualche modo riuscire a mantenere uno standard di sopravvivenza, qualitativamente basso (anche molto basso) per molti e alto (anche molto alto) per pochi, e chi sta sotto, resta sotto (magari ipercontrollato, con tecnologie di ultima generazione e molto efficaci) e chi sta sopra, resta sopra, continuando a fare quella dorata vita idiota cui sembra aspirare e devastando il mondo quanto più possibile. Qual è la tua opinione al proposito?

Fabio Vighi: Penso che stiamo vivendo un lento collasso socioeconomico accompagnato da vari fantasmi escatologici, che serviranno a renderlo più appetibile, per così dire. Il fantasma escatologico, cioè la minaccia di un evento cataclismico capace di azzerare o quasi la vita umana, è incluso nel prezzo che ci fanno pagare, fa parte del gioco. Questo dovrebbe averci insegnato la psico-pandemia. Più diventeremo schiavi del capitalismo dell’ultra-finanza, specie a livello di indebitamento, più continueranno a sbocciare visioni di tipo distopico-apocalittico. Sembra quindi inutile speculare su quando o come finirà il capitalismo, perché ogni fantasma della fine è incorporato nel sistema, così come lo è nella cinematografia hollywoodiana. Il fantasma escatologico è pura deterrenza. Serve a indorare la pillola dell’inevitabile stagnazione e imbarbarimento della civiltà capitalistica. Ciò non significa che non si finisca nel baratro – gran parte dell’umanità è già nel baratro. Significa piuttosto che per potersi auto-alimentare il capitalismo di crisi ha bisogno di proiettare nel futuro prossimo, sempre dietro l’angolo, l’immagine della (propria) catastrofe. Questo paradossale stratagemma, che un tempo avremmo definito “ideologico”, potrebbe mantenere il capitalismo in vita artificiale ancora per molto tempo. Effettivamente potremmo definire questo stratagemma una “ideologia escatologica”, che ben si abbina alla crisi finale del sistema capitalistico.

OL: A proposito di Intelligenza Artificiale: come la interpreti? Elemento positivo o elemento negativo? È un “male in sé” in quanto disumanizzante? È un “bene in sé” in quanto libera tempo e rende possibile una vita migliore? È un elemento neutro, per cui dipende dal contesto sociale e dall’uso che se ne fa? Qual è il tuo pensiero al proposito?

FV: Baudrillard diceva: non è intelligente perché non è abbastanza artificiale. Sono d’accordo: all’intelligenza artificiale manca l’artificio che è proprio dell’intelligenza umana, insomma è fondamentalmente stupida, e quindi quando immaginiamo un mondo dominato da questo tipo di intelligenza senza inconscio – cioè privata del suo “motore” – tendiamo a cadere in una trappola di tipo, appunto, escatologico, dove il soggetto finisce asservito alla macchina – una fantasia molto antica e piuttosto perversa. D’altro canto, è vero che viviamo nell’epoca della perversione generalizzata, in cui siamo pronti a disumanizzarci per l’Altro, per mantenere in vita l’illusione che l’Altro – il Capitale – sia ancora in grado di sostenere il nostro legame sociale, conferendoci dunque un’identità. È una versione aggiornata del mondo “sotto-sopra” di cui parla Marx quando descrive il feticismo della merce. Si tratta di una perversione di tipo masochistico, dove appunto nel soggetto prevale il suo essere subjectum, assoggettato. Ma anche in quest’ottica credo che oggi l’intelligenza artificiale sia paragonabile a uno dei cavalieri dell’Apocalisse. Fa paura, e certamente affascina, ma credo che ogni progetto distopico finirà per fallire, perché il soggetto, per quanto possa amare sottomettersi all’Altro, rimane in fondo definito dalla propria libertà, che interpreto come una sorta di compulsione al rifiuto. Essere liberi significa dire di no, mettersi di traverso; atteggiamento che va oltre le argomentazioni razionali, e diventa qualcosa di pulsionale e contagioso. La libertà intesa in senso “positivo” finisce invece per coincidere con quello che Hegel chiamava “cattivo infinito”, un abbattere (in fondo falso e pretestuoso) ogni limite. A livello sistemico l’intelligenza artificiale proseguirà nel solco scavato dalla microelettronica, rendendo il “soggetto del lavoro”, capitalisticamente inteso, sempre più superfluo e dunque sacrificabile. Ciò è senz’altro traumatico ma anche potenzialmente liberatorio, nel senso che è in grado, se avremo coraggio, di aprire nuovi orizzonti socio-antropologici, in cui il lavoro umano potrà svolgere un ruolo completamente diverso rispetto a quello attuale, e magari non chiamarsi più neppure lavoro.

OL: Torniamo a crisi e controllo: la crisi economica strutturale del sistema, che secondo la scuola della Wertkritik (e Marx) è inevitabile in un sistema che fa perno sull’accrescimento continuo in regime di competizione, sembra oramai conclamata. Questo richiama la questione del controllo, sempre centrale nel capitalismo e comunque in generale ovunque si richieda una “governamentalità”, ma oggi più che mai, proprio perché la crisi morde e le pesanti contraddizioni sistemiche si fanno più pressanti. Questione, fra l’altro, che sembra non essere presa abbastanza seriamente in considerazione dai movimenti e comunque da chiunque voglia contrapporsi allo status quo e alla sua degenerazione. Anzi spesso sono proprio questi che finiscono per prendere le parti del sistema (vedi crisi del “covid”), generando confusione e sconforto, nonché grossi problemi a coloro che, invece, motivando questa opposizione con cognizione di causa e non certo in modo “complottista” – per usare un termine diffamatorio caro a questi neo-paladini del sistema – vorrebbero provare ad opporsi a certi diktat. Ma il controllo, specie quello “preventivo”, sembrerebbe invece diventare veramente l’arma centrale del sistema, e non porre la giusta attenzione su questo punto ci getta, probabilmente, fra le sue fauci senza colpo ferire. Qual è la tua opinione a questo proposito?

FV: Hai riassunto perfettamente la questione. Stiamo assistendo a un violento cambio di paradigma all’interno del legame sociale capitalistico. Essendo conclamata e irreversibile, la crisi di valorizzazione (creazione di plusvalore attraverso lo sfruttamento del lavoro) spinge giocoforza il capitale verso un modello autoritario se non esplicitamente totalitario, basato sul controllo sia dei soggetti economici che di coloro che vengono ormai esclusi, in quanto superflui, dal meccanismo di creazione di profitto. L’attuale massacro di palestinesi perpetrato da Israele, agevolato da un Occidente a guida USA che è solito lanciare anatemi e sanzioni per molto meno, è l’esempio lampante di questa violenza sistemica verso un surplus umano che può essere impunemente eliminato in quanto in eccesso rispetto alla logica riproduttiva del sistema produttore di merci. L’attuale modo di produzione a trazione finanziaria – o meglio, l’attuale modo di riproduzione del segno finanziario che, in quanto tale, non contempla la mediazione del lavoro intensivo di massa – è inevitabilmente legato a tecnologie di potere basate sul controllo capillare delle popolazioni; controllo anche di carattere eugenetico, che da sempre fa parte dell’arsenale misantropico del capitale. Il potere economico fondato sui magheggi dell’ultra-finanza non sa più che farsene di milioni di umani che già oggi vegetano in condizioni di “morte simbolica”, non avendo più un ruolo da ricoprire – neppure come marxiano “esercito industriale di riserva” – nel grande (in senso quantitativo) poema epico del capitale. Su questo piano potrebbe davvero esplodere la contraddizione in qualche modo dialettica di cui si è sempre parlato rispetto ai movimenti operai; non tra il capitale e il lavoro ma tra il capitale e il suo “surplus escrementizio” – quelle masse sempre più numerose di umani che il capitale non può che considerare alla stregua di rifiuti da smaltire. Molti tra le future generazioni si troveranno a occupare proprio la posizione dello scarto rispetto alla folle, cieca, furiosa dinamica capitalistica. Se non saranno in qualche modo riciclati – sul modello del “capitalismo verde” – verranno verosimilmente rinchiusi in un sistema di controllo totalitario, ovviamente venduto agli stessi come inclusivo e solidale; e che cercherà innanzitutto di impedir loro di acquisire consapevolezza della posizione topologicamente sovversiva del “surplus umano” rispetto al discorso capitalistico. Perché il “rifiuto” in quanto scarto di sistema rappresenta eo ipso la negazione (“rifiuto” come sostantivo e come verbo) del sistema stesso. Ma il punto fondamentale è che, proprio sull’inevitabile produzione del reietto sacrificabile (l’homo sacer di cui ha scritto Agamben), dovrà essere costruito un orizzonte antropologico alternativo a quello capitalistico, in cui le categorie di lavoro, profitto, ecc. dovranno essere spazzate via. Ovviamente non vi sono certezze che questo accadrà, specie nel breve termine, ma allo stesso tempo sono convinto che qualsiasi progetto totalizzante sia destinato a fallire.

OL: Una domanda sulla Stato, la cui presenza non esplicitamente espressa aleggiava già nelle domande precedenti. Lo Stato è sicuramente uno dei dispositivi più efficaci del capitale, quello che in qualche modo amministra il caos capitalistico, o almeno dovrebbe farlo, ma soprattutto che ci tiene a bada e ci bastona a comando. In un certo senso, potremmo quasi dire che lo Stato è, in particolar modo oggi, l’organizzazione del controllo. Seguendo sempre la lettura marxiana, che individuava nello Stato il “capitalista ideale”, potremmo anche definire lo Stato l’“altra faccia del capitale”, che dovrebbe venire meno insieme a quello. Dunque, lo Stato non è il nostro referente, non lo vogliamo conquistare e “cambiare”, ma è piuttosto il nostro nemico. Ma al suo posto? Vogliamo qui sollevare il problema dell’organizzazione sociale. Come si struttura il “dopo” (se e quando ci sarà)? Come lo si “governa”? Con un parlamento mondiale, una sorta di ONU vera che funziona per i popoli? Con una sorta di “repubblica dei consigli” diffusa? Oppure? In altre parole, che forma dovrebbe assumere, sempre nel possibile “dopo”, la “rappresentanza”? Sempre, certo, che si possa parlare ancora di rappresentanza, di governo, di istituzioni, mondiali o meno che siano. E, nel caso, cosa al loro posto, dando per scontato che una organizzazione sociale, crediamo mondiale, sia comunque indispensabile e in qualche modo vada gestita?

FV: Mi viene da rispondere a questa domanda citando una celebre metafora culinaria di Marx: impossibile scrivere le ricette per le osterie del futuro. Non si tratta però di rinunciare a costruire il futuro, ma prendere atto che il primo passo che ci proietta in un futuro alternativo è l’abbandono, il distacco, delle categorie (in quanto modalità di godimento!) che ci legano al presente capitalistico e alla sua storia, sempre più distruttiva. L’organizzazione sociale post-capitalistica non può essere prêt-à-manger, o prêt-à-porter. La stessa volontà di cambiamento è qualcosa che non ci possiamo dare o imporre, ma deve nascere da una sorta di necessità oscura e viscerale che viene esperita collettivamente come sentimento insieme traumatico e liberatorio, che gradualmente, inevitabilmente anche attraverso errori, porta alla costruzione di un assetto sociale che ancora, nel migliore dei casi, possiamo solo intuire. Per quanto mi riguarda lo Stato potrebbe ancora servire da referente, magari in un periodo di transizione, ma ovviamente solo a patto che si svuoti, anche per gradi, della sua funzione di “angelo custode” del capitale. La questione della rappresentanza è, in fondo, secondaria rispetto a quella della nascita delle nuove categorie di socializzazione. Per quanto stia implodendo, la (post)modernità capitalistica possiede ancora un profondo potere gravitazionale, cioè di attrazione sulle masse. Ciò significa che organizza il loro godimento attorno al profitto, al consumo, al lavoro, ecc. Per questo non è sufficiente svelare la corruzione del Potere capitalistico. Dobbiamo innanzitutto rompere questa dipendenza inconscia, uscire dal sortilegio, dall’ipnosi collettiva che è, in modo sempre più manifesto, un incubo apparentemente senza fine. Il punto da cui partire è l’anello debole del capitalismo contemporaneo: il lavoro. È il capitalismo stesso che sta rompendo la sua dipendenza dal lavoro intensivo di massa. Ma se anche noi vogliamo rompere questa dipendenza, dovremo a un certo punto sostituire la principale forma di alienazione del moderno – il lavoro per il capitale – con una forma radicalmente diversa di attività socializzante che organizzi e in qualche modo soddisfi le nostre esigenze psichiche e pulsionali. Il soggetto in quanto animale sociale è per sua stessa natura alienato, nel senso che la formazione dell’identità soggettiva (l’io) non può prescindere dall’incontro con l’altro, rappresentato innanzitutto dal linguaggio. Il linguaggio, come aveva capito perfettamente Lacan, è ciò che ci forma dividendoci: ci dona un’identità separando l’io cosciente dal suo eccesso/mancanza di senso (il soggetto dell’inconscio). Questa scissione viene mobilitata in ogni tipologia di socializzazione, poiché per attecchire un legame sociale deve saper organizzare il desiderio e il godimento dell’essere umano, che si originano dal suo essere “mancante a se stesso”, ovvero ontologicamente incompiuto, contraddittorio, ecc. L’implosione del capitalismo implica allora la necessità di inventare una nuova socializzazione del nostro inconscio oltre la dipendenza tossica dai feticci capitalistici, tra cui, in primis, quello del lavoro salariato per l’estrazione di plusvalore. Ma proprio perché abbiamo a che fare con processi inconsci non è che possiamo sederci a tavolino e dire: voglio questo oppure quello. Non possiamo fare la lista della spesa. Penso piuttosto che il nuovo orizzonte sociale nascerà sulle ceneri del capitalismo una volta che avremo realizzato che stiamo già vivendo tra le sue ceneri.

OL: Entriamo più nel merito: ma questo “comunismo” (sintetizzando con questa parola il sistema sociale liberato e positivo che dovrebbe subentrare al capitalismo) cosa dovrebbe essere, come lo si struttura? Sappiamo che è quasi impossibile dargli una sorta di “forma” prima che “accada” – e la storia stessa dei tentativi fatti in questo senso qualcosa sicuramente ci insegna. Tuttavia, non è che, ogni volta affermando che non è possibile prefigurarlo prima, di fatto finiamo sempre per trovare una giustificazione per non impegnarci a pensarlo più nel dettaglio, e così facendo anche per allontanarcene, precludendoci un “avanzamento” ed un approfondimento di questa proposta? Perché non provare a ipotizzare forme di società molto diverse da questa, ma non per questo meno (potenzialmente) reali?

FV: Assolutamente sì, è necessario lavorare su queste ipotesi di società post-capitalistiche. È necessario liberare l’immaginazione. Il problema oggettivo che però incontriamo ogni volta che proviamo a farlo è il seguente: i limiti della nostra immaginazione sono i limiti del capitalismo stesso, che non può vedere oltre i propri feticci. Questi feticci àncorano, fissano, il discorso sociale, conferendo al “vampiro globale” un’aura di necessità ontologica. È un limite strutturale. La politica è l’emblema di questa impotenza del pensiero, perché giustificherà il sistema fino alla sua auto-distruzione. Torniamo allora alla questione posta in precedenza: il soggetto che inizierà a immaginare e insieme a costruire le basi di un futuro post-capitalista – ma anche post-socialista (dunque post “società del lavoro”) – non può che essere quel soggetto (collettivo) per cui i feticci del capitale hanno perso la loro “carica erogena”, per dirla in un modo un po’ banale. Mi riferisco a un soggetto che non riesce più a godere dei (presunti) doni che provengono dal sistema produttore di merci e generatore di profitto. Giunto a questa condizione di straniamento, il soggetto, se non vuole rimanere preda di una depressione anch’essa “marchiata” e tutelata dal capitale (dalle droghe agli psicofarmaci all’ideologia dell’emergenzialismo perenne), non può che cambiare l’orientamento del proprio godimento, rapportandosi diversamente rispetto agli oggetti del mondo. Immaginare un legame sociale post-capitalistico significa, come direbbe Freud, “muovere il sottosuolo”, ovvero innestare nuove modalità di investimento pulsionale (nuovi desideri, nuove forme di entusiasmo, ecc.) che sostituiscano quelle che sostengono il capitale; ovviamente senza farsele cooptare dallo stesso (come avvenuto per esempio con la “rivoluzione sessantottina”, l’etica del rifiuto di Marcuse legata a una ingenua “liberazione dell’Eros”). Questa riflessione, che sviluppo da anni, mi porta a una conclusione fruibile anche a livello intuitivo: volere il cambiamento non è mai condizione sufficiente per il cambiamento stesso perché la volontà morale o intellettuale opera esclusivamente sopra il pelo dell’acqua, cioè come consapevolezza razionale, senza agire sulla dimensione inconscia che è proprio quella che ci lega a doppio filo a un determinato ordine sociale. Possiamo dunque pensare il tema della liberazione come un processo di svuotamento che coincide con la determinazione di nuovi contenuti sociali che possano “far presa” solo se integrati da nuove “attrazioni inconsce”. Tutto ciò, per sua stessa natura, non può essere stabilito a tavolino, ma deve attraversarci come un fenomeno carsico, che agisce in profondità, in base a modalità che possiamo comprendere e articolare solo parzialmente. Un buon punto di partenza sarebbe fare piazza pulita di significanti vetusti, che rimandano a strutture fallite o fallimentari, tra cui includerei anche quella di “comunismo” che troppo spesso finisce per confondersi con “socialismo reale”. Se si tratta di significare il mondo in modo alternativo rispetto al marchio diabolico del capitale, allora occorrono significanti nuovi – un linguaggio che ci permetta di accedere a una visione profondamente mutata, fondata su una nuova concezione e prassi del tempo, dello spazio, del movimento. Ovviamente partendo dall’imperativo di migliorare le condizioni dell’umanità che oggi è sempre più schiacciata dalla logica del capitale nonostante le enormi potenzialità tecniche a disposizione.

OL: Una base di partenza, per un possibile “innesco” della trasformazione, potrebbe essere la ricerca della soddisfazione dei “bisogni”. Non si può infatti negare che gran parte dell’umanità sia costretta a fare a meno delle più elementari necessità, paradossalmente proprio nel mezzo alla più grande abbondanza. Rivendicare il proprio diritto ad un livello di vita dignitoso, all’interno di un sistema sociale che strutturalmente non può garantirlo a tutti, potrebbe già essere un passaggio “sovversivo” di una certa portata. Già in passato tale questione è stata al centro di riflessione, per esempio nel pensiero di Agnes Heller, ripresa dai movimenti più radicali in Italia negli anni ‘70. Anche il “Manifesto contro il lavoro” parla di una società liberata dove “le cose saranno prodotte secondo il bisogno e tutti si prenderanno semplicemente quel che a loro serve” (Mimesis 2023, p. 75). Si è parlato dunque, e anche ora se ne parla, di “soddisfazione dei bisogni” quando si discorre intorno alla trasformazione in senso comunista della società. Ma cosa sono questi bisogni, chi li decide, chi decide quali siano? Un’auto propria è un bisogno? Uno yacht è un bisogno? Viaggiare è un bisogno? Forse anche entrare nel merito di una questione del genere può aiutare a chiarire alcuni punti e ad incamminarci nella giusta direzione, cioè quella del superamento del sistema del capitale, che poi è la cosa che ci sta più a cuore.

FV: Sono d’accordo ma non c’è garanzia che la necessità di soddisfare i bisogni porti a un cambiamento radicale, oltre il capitalismo. Forse dobbiamo guardare oltre i bisogni, nel senso che deve subentrare una nuova architettura sociale in grado di indirizzare altrove (verso nuovi oggetti e ideali) i desideri e soprattutto le pulsioni del soggetto, che sono al di là della soddisfazione del bisogno – che poi è ciò che ci differenzia dagli animali. Come detto, può essere che questa struttura si sia già messa in moto, nel qual caso sta a noi individuarla e attribuirle un significato che possa consolidarsi socialmente. I cambiamenti cominciano sempre nel momento in cui devono cominciare – non li si inventa a tavolino. Può sembrare un punto di vista deterministico, e forse in parte lo è anche se insisto sul suo carattere dialettico. La volontà di cambiamento del soggetto si inserisce in un processo che viene messo in moto da contraddizioni che il sistema egemone non riesce più a gestire. Poi il soggetto si deve impadronire del processo di cambiamento e consolidarlo, farlo diventare una necessità storica. È accaduto esattamente questo con la rivoluzione capitalistica – nessuno può dire con certezza dove e quando sia iniziata, e sicuramente non è che qualcuno un giorno abbia improvvisamente deciso di farla finita col sistema feudale. C’è stato un passaggio, molto lungo, in cui hanno gradualmente attecchito nuove categorie – a partire dal lavoro salariato, svincolato dal ruolo che ricopriva nella matrice feudale, e dal denaro, che da semplice mediatore dello scambio di merci si è trasformato in capitale, cioè un meccanismo in qualche modo mostruoso fine a se stesso, finalizzato al proprio auto-accrescimento. Su questo punto Althusser dice una cosa che condivido: il capitalismo nasce grazie a un incontro aleatorio, contingente, che però rende possibile la creazione di nuove condizioni di possibilità socio-ontologiche. Secondo il materialista Althusser è l’incontro tra una certa quantità di “denaro” e di “lavoro” che, in un determinato momento storico e in una data collocazione geografica, si ritrovano svincolati dalla struttura feudale. Era una tra altre possibilità, e dopo alcuni fallimenti alla fine ha attecchito, nel momento in cui la formula capitalistica si è trasformata da contingenza in necessità, assumendo un carattere ontologico – per dirla con Benjamin, trasformando in “culto terreno” la carica metafisica del modello feudale.

OL: Visto che stiamo parlando di prospettive e sui modi attraverso i quali sarebbe possibile aprirne alcune, domanda secca sulle tornate elettorali: secondo te il cambiamento dovrebbe passare solo attraverso movimenti di piazza, possibilmente ben strutturati e ben attrezzati anche intellettualmente, oppure anche dalle elezioni? C’è chi sostiene che le elezioni siano proprio la negazione del cambiamento, visto che rimestano all’interno dell’ordine che vorremmo spezzare, oltretutto togliendo un sacco di energia, specie a coloro che vorrebbero in buona fede operare per una trasformazione ma si spengono all’interno dei giochi elettorali, mentre queste energie potrebbero essere impiegate, in modo molto più fecondo, per costruire una società alternativa partendo dal basso – quindi con molta più fatica, ma almeno con qualche prospettiva reale e non fittizia come nel caso delle elezioni. C’è invece chi sostiene che sia sbagliato “snobbare” i momenti elettorali e si debba anche parteciparvi attivamente e convintamente, perché sono se non l’unico almeno uno dei pochi modi realistici di poter intervenire sullo “status quo”. Tu come la vedi?

FV: Ritengo che la democrazia parlamentare, al tempo del collasso economico “al rallentatore” (per ora) in cui stiamo galleggiando, non abbia altra funzione che offuscare le contraddizioni e criticità di sistema – per questo non ho alcuna fiducia in queste istituzioni. I valori politici sono l’estensione dei valori del sistema economico, e ne ereditano lo stesso grado di cinismo, corruzione, o amoralità. In questo senso la loro funzione è anche quella di prestare un volto “umano” all’oggettività autodistruttiva di sistema – volto su cui le masse possono scaricare le loro frustrazioni. Dal punto di vista delle élite economico-finanziarie, il politico corrotto fa persino comodo come agnello sacrificale da gettare in pasto alle masse ogniqualvolta si presenti il bisogno. Siamo sempre sul piano della distrazione di massa rispetto alla radice del problema. Detto questo, credo che il cambiamento a un certo punto debba necessariamente passare dalla politica rappresentativa. Ma prima occorre sviluppare una profonda consapevolezza critica a livello extra-politico, attraverso un movimento di massa transnazionale che si ponga come obiettivo il superamento delle categorie del capitalismo e l’apertura verso forme di organizzazione sociale alternative.

OL: Veniamo ai media: spesso, sempre nell’intento di dar vita ad un pensiero, e una prassi, antisistemici, ne trascuriamo l’importanza e l’impatto sulla realtà, anzi più precisamente sul loro determinare la realtà e darle forma. La soluzione quale potrebbe essere? Occuparli? Dare vita a media alternativi, di movimento? Oppure uscire proprio all’orizzonte mediatico, e provare a cercare altri canali comunicativi, altri orizzonti di comunicazione. Ma quali? Per esempio, si potrebbe viaggiare e incontrarci di più, come si faceva prima (e, proprio per questo motivo, c’era una rete di accoglienza ovunque che ora manco ce la immaginiamo, e 1000 modi per viaggiare gratis)? Oppure? I famosi “social”, in questo senso (cioè al fine di contrastare il dominio del pensiero “main stream”), potrebbero essere utili? O sono un’altra fregatura?

FV: I media mainstream sono sempre più centrali per la propaganda, o quantomeno per il controllo dell’informazione. Riguardo ai “social”, si dice spesso che possano anche unire le persone in termini anti-sistemici, convogliare nuove idee, e via dicendo. Non è del tutto sbagliato, almeno in linea generale, perché la tecnologia è per definizione ambigua, e ciò che conta sono le idee che vengono mediate. Però al momento, per quanto possa sembrare che sia in atto una frammentazione dell’informazione, o almeno una separazione tra media mainstream e alternativi, non è facile trovare canali che riflettano in termini collettivi sul tema della necessità di sottrarre la coscienza del soggetto contemporaneo agli imperativi del totalitarismo capitalista in divenire, e della sua logica sempre più funesta. Questo non perché i media siano cattivi o inefficaci, ma perché manca (ancora?) il desiderio collettivo di sganciarsi definitivamente dalla matrice del capitale. Se poi guardiamo nello specifico ai “social” oggi, mi pare che la loro funzione sia tutt’altro che emancipatoria. Piuttosto, le condizioni imposte dal “capitalismo comunicativo” sono quella di una sorta di “frammentazione sotto forma di partecipazione”. Ovvero, il capitalismo fa della comunicazione un circuito di gravitazione pulsionale, chiuso e sostanzialmente ripetitivo, che isola i soggetti fingendo di unirli. Il limite dei nostri media, anche quando convogliano pratiche di impegno collettivo per nobili cause, è quello di oscurare sistematicamente lo sfondo, le dinamiche di sistema: il fatto cioè essi operino all’interno di una logica implosiva che “de-socializza la società”. D’altronde il capitalismo a trazione finanziaria non può che essere asociale, in quanto si è sganciato da tutti quei fardelli politico-ideologici di cui il capitale si serviva in passato, quando ancora il lavoro produttivo di massa era al centro della sua narrazione e dunque doveva essere “rappresentato”. Piuttosto, l’epoca del “declino dell’efficienza socio-simbolica” in cui viviamo produce una condizione di perversione generalizzata. E questo è il punto su cui vorrei brevemente soffermarmi. Cos’è la perversione? Lacan, riprendendo Freud, la definì come il tentativo disperato di denegare il vuoto nell’Altro, ovvero l’impotenza dell’apparato simbolico che sostiene la nostra identità all’interno di una determinata costellazione sociale. Il Grande Altro di cui parlava Lacan oggi va declinato come “discorso della grande finanza”. Poiché si tratta di un discorso brutalmente de-socializzante, la comunicazione di massa che esso facilita non può che assumere connotazioni perverse, ovvero mirate a negare l’evidenza del vuoto, inteso come evaporazione del legame sociale. In sostanza, YouTube, Twitter, Facebook, etc. agevolano l’integrazione dei loro utenti nella matrice di un capitalismo che al contempo li atomizza, installando un loop perverso tra ansia e partecipazione. Più il sistema vacilla e implode, più il soggetto in preda all’ansia tende inconsciamente a volerne recuperare l’autorevolezza, persino sotto le spoglie di un comando autoritario e inflessibile, come nel classico esempio del masochista che porge la frusta alla domina. Questo perché il declino dell’efficienza simbolica del capitalismo liberal-democratico minaccia di polverizzare le stesse soggettività che ha creato. È dunque evidente che non c’è nulla di trasgressivo nella perversione. Ciò che contraddistingue l’economia libidica del perverso è questa tentazione di natura masochistica, squisitamente conservatrice, di “darsi in pasto all’Altro” – cosa che effettivamente caratterizza tutte quelle varianti di narcisismo esibizionista che riempiono i “social”. Chi, per esempio, passa intere giornate online a “postare” (foto, opinioni, ecc.) effettivamente si fa strumento (feticcio) del godimento dell’Altro (il capitale), proprio perché, così facendo, si illude che il capitale esita nella sua funzione socializzante; s’illude cioè di continuare a partecipare a un legame che in realtà è già in fase di avanzata decomposizione. La passione perversa che muove chi rimane attaccato giorno e notte ai “social” è profondamente necrofilica: si tratta dell’illusione di “far godere un morto”, di vivificare un sistema ormai svuotato di sostanza sociale. Nella sua più elementare definizione freudiana, la perversione è la risposta psichica che il soggetto dà alla propria ansia scatenata dall’incontro con l’inefficienza (o inconsistenza) dell’Altro. Oggi, nell’epoca della grande simulazione finanziaria, la desertificazione della legge simbolica viene almeno parzialmente riempita dall’uso sempre più perverso (nei termini qui sommariamente esposti) che facciamo dei social media.

OL: Ultimamente è salita all’attenzione di molti la questione della cementificazione del mondo. Un bel libro di Anselm Jappe, dal titolo “Cemento, arma di distruzione di massa” (Eleuthera 2023) ha posto l’accento su questa problematica, con dovizia di particolari, ed ha ottenuto un buon successo. Questa tematica richiama, per contro, la questione dell’architettura e dell’urbanistica di città non più capitalistiche, cioè su come dovrebbero essere. Cosa dovrebbe cambiare, a tuo avviso, nelle città non più sottoposte alle esigenze del sistema del capitale? Forse andrebbe in crisi anche proprio il concetto di “città”, e magari prenderebbero vita “nuove” forme di convivenza, dove anche la divisione fra città e campagna perderebbe di senso? Oppure? Come la vedi?

FV: Premetto che non ho letto il libro di Jappe (e aggiungo che lo farò al più presto). Mi sembra evidente che l’architettura e l’urbanistica siano espressione di una coscienza culturale di sistema – nel nostro caso della modernizzazione capitalistica. In ottica post-capitalista dovrebbe svanire di colpo l’ossessione per la cementificazione, che risponde innanzitutto alla logica della bolla immobiliare, della cementificazione come fuga in avanti del capitale – fuga che costituisce, oggi come nel 2008, uno dei centri nevralgici del capitalismo a trazione finanziario-speculativa. Non è un caso che si continui a insistere sulla necessità di portare a compimento le famigerate “grandi opere” come il ponte sullo stretto di Messina, classico esempio di propulsore finanziario dell’industria del cemento. Per come posso provare a immaginarla, la crisi della città moderna, cioè definita sostanzialmente dalle leggi del mercato e del profitto, potrebbe partorire un nuovo rapporto con l’orizzonte spaziotemporale che ci definisce, che è insieme estetico ed ecologico. Non si tratterebbe di un “ritorno alla natura” ma innanzitutto di una concezione meno astratta e “brutalista” sia dello spazio urbano e suburbano, ma anche dello spazio aperto e paesaggistico. Tutto ciò non potrà che essere il riflesso di una reale emancipazione dall’ottusa dinamica della modernizzazione capitalistica.

OL: Domanda secca, un po’ provocatoria: cosa rispondi a chi dice che per risolvere tutti i problemi sarebbe sufficiente tornare ad un welfare efficace, e per farlo basterebbe semplicemente recuperare i soldi dell’evasione fiscale, che in certi paesi è veramente cospicua (per esempio, in Italia)? In pratica, il sistema in qualche modo potrebbe anche funzionare, senza lasciare nessuno indietro, se tutti pagassero le tasse dovute, magari con un governo “illuminato” (e ovviamente di sinistra) che destini le risorse principalmente ai servizi sociali, (istruzione, sanità, cultura, lavori socialmente utili etc) e meno ad armamenti, eserciti, forze di polizia etc. Sei d’accordo?

FV: È un punto di vista condivisibile moralmente ma anacronistico, in quanto evade completamente la questione di fondo, ovvero il fatto che l’attuale condizione implosiva nasce dall’incapacità oggettiva del capitale di creare sufficiente plusvalore per la riproduzione sociale. In termini capitalistici, sia le “risorse” che il potere d’acquisto sono destinati a diminuire in quanto espressioni fenomeniche di plusvalore. In un certo senso, pensare di poter risolvere i problemi con un welfare efficace e una più equa riscossione e distribuzione delle tasse risponde a una logica nostalgica che, collegandomi a quanto detto sopra, possiamo far rientrare nell’ambito della perversione, poiché si ostina a negare l’impotenza dell’Altro (il capitale quale motore di riproduzione sociale).

OL: Ancora una piccola provocazione: si dice che le banche centrali o chi per loro “inventino” letteralmente denaro senza valore per tenere in piedi l’economia capitalistica. Ma, dato per buono che sia così, se invece di darlo ai capitalisti o agli Stati lo dessero alla gente normale, non sarebbe tutto risolto? Ognuno diventebbere un “compratore affidabile”, dotato della liquidità necessaria, e tutto l’invenduto e anche più sarebbe valorizzato, e tutti vivrebbero felici e contenti. È un po’ l’utopia di un “reddito universale” per tutti, non vincolato alla prestazione lavorativa. Sarebbe possibile? E, se non lo fosse, perché? Si potrebbe sostenere che questo afflusso di denaro creerebbe una domanda esagerata rispetto ad un’offerta comunque limitata, e quindi inflazione a cascata, ma anche questo non è del tutto vero, visto che anche l’offerta è “esagerata”, poiché la produzione a guida microelettronica sversa oramai sui mercati merci di ogni tipo a dismisura, che soffrono proprio perché restano invendute. In questo senso, la distribuzione tipo “helycopter money” sarebbe un toccasana, sia per i mercati che per la gente comune. Dunque, perché non ci muoviamo in questa direzione, rivendicando appunto la distribuzione generale e capillare di denaro per tutti? Cosa c’è di sbagliato in questo tipo di approccio?

FV: Non è corretto affermare che l’eccesso di domanda artificiale assorbe l’eccesso di produzione a basso costo. Non esiste equiparabilità tra i due fenomeni, per il semplice motivo che l’unico indice di equiparabilità è il plusvalore prodotto. Mi spiego. Innanzitutto, aumento di produttività significa, oggi, che sempre meno energia umana viene utilizzata per la produzione di un maggior numero di merci. Pertanto, l’aumento della produttività non aumenta il valore reale contenuto nella merce, ma lo abbassa, perché il valore si origina nel lavoro umano. Chi sostiene il contrario confonde l’analisi socioeconomica del capitale totale con l’analisi dell’economia del singolo imprenditore. Oggi, incrementare il valore diventa sempre più arduo a fronte di livelli di produttività sempre più elevati, in quanto questa produttività utilizza sempre meno lavoro. È peraltro vero che a un maggiore sfruttamento del lavoro (aumento del saggio del plusvalore) corrisponde la creazione di merci più economiche, ma nel complesso viene prodotto sempre meno valore, e quindi si creano massicce distorsioni che devono essere compensate dalle iniezioni di credito generato dal nulla, che alla fine si manifesta come svalutazione del denaro, e dunque perdita di potere d’acquisto. Ripeto il punto centrale: il potere d’acquisto è figlio del plusvalore estratto dal lavoro; se diminuisce il plusvalore totale, diminuisce anche il potere d’acquisto (ovvero si svaluta il denaro). Oggi stiamo vivendo esattamente questa fase della crisi.

OL: Infine, ci sembra doverosa una domanda sul “capitalismo delle emergenze”, definizione per il cui successo sei in qualche modo il “massimo responsabile” – nel senso che se ha preso forma un interesse più approfondito sulle continue “emergenze” che caratterizzano il nostro momento storico, oramai da alcuni decenni, è soprattutto merito della tua riflessione su questo aspetto. Il capitalismo attuale, alla canna del gas in quanto tale, cioè in quanto puro capitalismo, visto che non riesce più a riprodursi in modo soddisfacente secondo le sue proprie regole, si sarebbe trasformato in un “capitalismo delle emergenze”: “strategia” questa che, non si sa quanto studiata a tavolino ma di fatto operante – e con grande efficacia -, permetterebbe a questo sistema in affanno di restare a galla sia da un punto di vista disciplinare (le emergenze rendono possibili continue “deroghe” alle presunte regole del vivere democratico, cioè di fronte ad una emergenza, quindi ad un “pericolo” potenziale, tutto è permesso – naturalmente con lo scopo dichiarato di “servire il popolo”, detournando in questo caso una espressione che proviene da tutt’altra origine, o quasi), che da un punto di vista finanziario (perché con l’emergenza è possibile trovare le giustificazioni necessarie, sempre ovviamente per salvare il mondo, per far aprire i cordoni delle borse alle varie banche centrali e autorizzare sversamenti a fiumi di denaro senza valore, la famosa “aria calda” marxiana che in realtà riscalda ben poco, ma serve comunque a tenere a galla il sistema, almeno un altro po’). Potresti dirci per favore il tuo punto di vista nel merito?

FV: Hai riassunto perfettamente il concetto. La raffica di emergenze globali cui siamo esposti da qualche tempo, che ha subito una significativa accelerazione con la cosiddetta “emergenza pandemica”, serve sia a giustificare la creazione di quantità sempre più grottesche di denaro senza sostanza, digitato direttamente sugli schermi delle banche centrali e iniettato nel sistema come debito, che al controllo biopolitico delle popolazioni impoverite. Due piccioni con una fava! Riguardo al primo punto, si è passati dall’ordine dei billions (miliardi) di dollari del 2008, a quello dei trillions (miliardi di miliardi) del 2020. Non ce n’è mai abbastanza, perché il sistema delle bolle finanziarie, che deborda continuamente nella galassia dei derivati, è un buco nero che ingurgita sempre maggiori dosi di liquidità. Siamo veramente giunti al parossismo dei parossismi finanziari. La maggior parte delle persone non ha idea di quanto la riproduzione sociale sia divenuta in poco tempo totalmente dipendente da questa logica di indebitamento strutturale, cui non può che corrispondere l’accelerazione della crisi e l’avvento di una fase profondamente illiberale e autoritaria, non più basata sull’intermediazione del denaro, ma sul controllo diretto delle popolazioni. Di emergenza in emergenza, la matrice capitalista diventa sempre più violenta, claustrofobica, oppressiva. Si stringono i muri della prigione, manca l’aria. Riusciremo a evadere prima che sia troppo tardi?

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