È uscito, per le edizioni Meltemi, un importante libro di Robert Kurz, Il capitale mondo. Per una sintetica presentazione del testo e della sua storia, rimandiamo all’introduzione, dove vengono tratteggiati velocemente anche temi e motivi di fondo.
In questo articolo vorrei invece sottolineare come, in un periodo travagliato quale quello che stiamo attraversando, il libro di Kurz rappresenti un raro tentativo, a mio avviso riuscito, di spiegare la crisi mondiale in modo lucido e ben argomentato, evitando derive cospirazioniste o destrorse, oggi così di moda.
Kurz, sulla scorta della teoria critica del valore, corrente di pensiero di cui ha rappresentato e rappresenta ancora la mente più brillante, riesce infatti a dare un quadro coerente di una serie di fenomeni che nei nostri tempi affranti sconcertano i più, fenomeni che scombinano le coordinate e provocano spesso grande confusione, anche teorica (solo per fare un esempio, la difficoltà di riconoscere oggi cosa sia sinistra e cosa destra, addirittura se questa distinzione abbia ancora senso).
Questo caos non creativo confluisce spesso in interpretazioni del reale che hanno un che di surreale, letture che immaginano grandi complotti e grandi manovratori i quali, da qualche luogo non ben definito ma immancabilmente sinistro e cupo, decidono delle sorti del mondo e dei suoi abitanti.
Sia chiaro: non mancano luoghi e organizzazioni, spesso statuali, dove effettivamente si decide su questioni o aspetti rilevanti per la sorte di ognuno di noi. Ma un conto è riconoscere dietro a tutto questo, come fa appunto Kurz, il movimento del sistema del capitale, che tesse una ragnatela di dispositivi insieme repressivi e normalizzanti al fine di mantenere in vita se stesso e le condizioni della propria esistenza, ed al tempo stesso riconoscere il “funzionariato” che – di fatto – ne rappresenta la manovalanza, un conto pensare che ci siano élite ben identificabili, particolarmente perverse e maligne, che complottano per lo sterminio di due terzi dell’umanità o tramano per inserirle un chip sottocutaneo, o che altro, e che siano esse l’origine di tutti i nostri mali – per cui sparite quelle, sparito il male.
Al di là della molteplicità delle fantasiose ipotesi complottiste, che ha oramai raggiunto vette notevoli, il difetto principale di questa lettura dell’esistente è proprio che essa “soggettivizza” le colpe, indicando in alcuni soggetti, che variano di volta in volta a seconda della contingenza in corso, i responsabili tout court di ogni disastro e disagio che ci possa colpire, saltando a pie’ pari il sistema che genera queste stesse figure. Per riprendere un antico adagio, guardano il dito ma dimenticano la Luna.
Ma è la Luna che deve essere osservata, e ben compresa. Sarebbe bello fosse solo colpa di uno Schwab, di un Soros, dei Rotschild e compagnia cantante. Troppo facile: elimini loro, ed ecco eliminato il problema. Ma, purtroppo, così non è, e la storia qualcosa dovrebbe averci pure insegnato.
Il problema è invece molto più grave e profondo, e ben più difficile da risolvere. Il “problema” riguarda anche tutti noi, e ci riguarda a fondo nella misura in cui noi stessi siamo determinati, quasi “formattati”, dal sistema, da esso dipendiamo ed esso, non di rado inconsapevolmente, spesso difendiamo – per esempio quando ci stracciamo le vesti per implorare “lavoro”.1 Uscire dal sistema del capitale è un’impresa titanica, specie adesso, in un momento storico in cui il capitale non solo ha letteralmente invaso, e capillarmente, il mondo intero – come proprio il testo di Kurz specifica in modo analitico e illuminante – ma ad esso detta la sua legge di pensiero in modo praticamente univoco e senza un vero contrasto. Demolirne le coordinate è ben più difficile che demolire un palazzo con uno dei tanti bei missili che l’ingegno dell’uomo moderno è stato capace di creare.
C’è comunque – diciamolo pure senza tema – del “vero” nelle derive complottiste, anche se l’interpretazione che esse danno di un malessere oramai molto diffuso e tangibile prende impietosamente strade che finiscono per sbattere inesorabilmente in veri e proprio cul de sac. Per esempio, non è del tutto fuori di testa dire che è in corso una sorta di “eliminazione” di gran parte del genere umano, per sostituirlo con dispositivi digitali o macchinari di nuova generazione. Solo che questa non è la scelta di una demoniaca élite di folli animata da una maligna volontà di sterminio, ma la necessaria conseguenza della crisi da valorizzazione capitalistica. Nel capitalismo di crisi, intere masse di persone diventano, di fatto, fuori corso, risultano superflue e inutili (persino come “sfruttati”) e, per quanto si possa cercare di tenerle sulla scena con qualche escamotage, resta il fatto che sono diventate “in sovrappiù”. Ma non solo: rappresentano anche un costo, perché devono – o almeno “dovrebbero” – comunque vivere, abitare, percepire una pensione, un reddito, avere un’esistenza quanto possibile dignitosa e via dicendo. Ma questo non può più essere concesso da un sistema in crisi di redditività, che cerca spazi di valorizzazione proprio nel contenimento dei costi sociali, cosa che comporta, per l’appunto, oltre che il taglio di ogni welfare, anche la sostituzione di forza lavoro viva coi macchinari e con la tecnologia. Quindi, se queste masse di diseredati si tolgono dai piedi, fanno solo un favore al sistema, e se crepano tanto meglio, così lo fanno pure risparmiare sui costi da sostenere per doverle sorvegliare e tenere a bada.
Scambiare tutto questo per un piano progettato per sterminare una parte consistente dell’umanità, significa mancare completamente il bersaglio, non rendersi conto di dove stia veramente il problema, e di cosa andrebbe fatto per risolverlo. “Personalizzare” la colpa, addebitandola ora a quello ora a quell’altro, oltre ad essere un favore che si fa al sistema, porta solo, a lungo andare, verso esiti tragici ben noti, che la storia, come già detto, non manca di ricordarci. Inoltre, vale più che mai qui l’altrettanto antico adagio “morto un Papa, se ne fa un altro”. Ci liberiamo di un dirigente del WEF, ne arriva un altro praticamente uguale, che fa le stesse cose, sfumatura più sfumatura meno. Ci liberiamo di un presidente del consiglio indesiderato, idem con patatine. E non potrebbe essere altrimenti. Arriva un “sovversivo” come Tsipras che vorrebbe cambiare le carte in tavola (in realtà poi solo rimescolarle)? Non ci sono problemi: l’interdipendenza delle economie lo indurrà, volente o nolente, a tornare sui suoi passi, pena la catastrofe sociale definitiva – ovviamente nemmeno l’autarchia, sempre che fosse possibile, lo avrebbe salvato, giusto per anticipare eventuali giubili sovranisti.
Dunque, non se ne esce?
Forse, per avere anche solo una tenue speranza, sarebbe intanto il caso di tornare ad aprire gli occhi, e rivolgere la nostra attenzione verso quello che è il “vero” problema, cioè il sistema del capitale – che, come detto, utilizza sì propri funzionari per sopravvivere (funzionari, ripetiamo, decisamente pericolosi e persino criminali, nessuno lo nega) ma che sono però, come acutamente notava Marx, essenzialmente maschere di carattere, e non essi stessi il problema, benché certamente lo rappresentino. Equivocare su questo punto rappresenta, ribadiamo, di fatto un aiuto insperato per il sistema, ed è un equivoco talmente pericoloso da indurre lo stesso Kurz e dire che:
Contro la “critica del capitalismo” assolutamente reazionaria, neo-piccoloborghese e largamente decurtata in senso “democratico-nazionale” sarà perfino necessario prendere le difese degli esponenti del capitale finanziario e speculativo transnazionale, sospinto dalle proprie contraddizioni immanenti, senza badare a scrupoli tattici. Non ci sono più “tiranni” da ghigliottinare come accadde nel corso della transizione dal feticismo degli uomini al feticismo delle cose.
Il conflitto verso l’esterno è sempre, allo stesso tempo, anche un conflitto verso l’interno, una lotta per la liquidazione della forma-soggetto universale, cioè del soggetto maschile, occidentale e bianco. (Il capitale mondo, p.523)
Neanche i presunti regimi comunisti hanno mai rappresentato una reale alternativa al sistema del capitale, e meno che mai ne rappresenta ora il loro mortificante lascito. Anzi, queste “modernizzazioni di ritardo”, come le chiama Kurz, hanno in realtà avuto soprattutto un ruolo di “recupero” di paesi che, per vari motivi, erano rimasti indietro nella corsa alla modernizzazione. Ma questi regimi non hanno mai veramente messo in discussione i fondamenti su cui si basa il sistema del capitale, fondamenti quali lo Stato, il denaro, la merce o il lavoro astratto – come ha dimostrato efficacemente sempre Kurz in un altro libro di un certo spessore, Il collasso della modernizzazione. Dunque non hanno mai rappresentato qualcosa di veramente “altro” rispetto al capitalismo, ed anzi lo hanno rincorso malamente sul suo stesso terreno, finendo inesorabilmente per soccombere per primi quando il terreno cominciava a farsi fragile.
Preso atto di tutto questo, che cosa significa, allora, combattere il capitalismo? Con chi ce la dobbiamo prendere, cosa dobbiamo abbattere?
Innanzitutto, si tratta, con ogni probabilità, di fare un passo indietro e capire “cosa” combattere, e perché. Si tratta, cioè, di andare alla radice, e rimettere in gioco anche tutta una cultura, una “forma di pensiero”, legata al sistema del capitale e alla quale (e dalla quale), purtroppo, anche noi siamo stati formati. Questo ci dovrebbe in qualche modo portare a mettere in discussione le strutture di fondo su cui si regge il sistema, la sua “ossatura”. Sempre seguendo la lezione di Kurz e compagnia, si tratta quindi anche di inquadrare il capitalismo come emergenza storica (fra l’altro non lineare con le epoche del passato, nel senso che non discende da esse in linea diretta, ma ne rappresenta piuttosto una cesura, anche netta),2 e non dargli lo statuto di destino ontologico dell’umanità, “destrutturarne” le apparentemente intoccabili “verità” e, da lì, criticarne a fondo, e infine oltrepassarne, le categorie fondamentali, quali quelle già menzionate: il lavoro (astratto – ma forse questo aggettivo potremmo anche evitarlo), lo Stato, il mercato, la merce, il denaro, solo per sottolineare alcune delle principali. Ciò significa, per fare un esempio, che non sarà possibile oltrepassare lo Stato semplicemente appropriandosene e cambiandolo di segno – sempre che questo sia veramente possibile. Piuttosto si tratterà di superarlo e immaginare, e nello stesso momento costruire, un tipo di organizzazione sociale capace di rendere conto, certo meglio dello Stato stesso, della complessità sociale, senza ridurla a un grigio e asservito grumo uniforme, ma lasciandola libera di esprimersi nella sua più varia diversità e dove nessuno debba soffrire privazioni o infelicità.
Impossibile? Chi può dirlo. Se è potuto nascere un sistema così macchinoso, folle e criminale come quello del capitale, può benissimo nascerne uno dove sia possibile una vita felice e piena, solidale e libera, serena e insieme creativa, insomma una vita degna di essere vissuta.
Ma per far questo, occorre – diciamolo ancora una volta – puntare con decisione verso l’obiettivo principale, e smetterla di perdere tempo con soluzioni del tutto inadeguate ed anzi controproducenti. Come dice, un po’ provocatoriamente, e sintetizzando mirabilmente, lo stesso Kurz:
È del tutto insensato fare ricorso a categorie soggettive e morali, come avviene a profusione nel dibattito pubblico, come fanno i critici della globalizzazione ma anche le campagne populistiche di una parte della classe politica. La nuova economia del saccheggio mediata dal capitale finanziario è solo l’esito terminale di un processo oggettivo di crisi della logica della valorizzazione capitalistica, non il frutto del comportamento disfunzionale di manager della finanza soggettivamente corrotti. Una critica degna di questo nome dovrebbe concentrarsi sul livello del “sistema operativo” capitalistico, di cui invece non si vuole sentir parlare. Le consuete invettive moraleggianti nei confronti dei “predoni” invertono sistematicamente la causa con l’effetto. È probabile che gli stessi manager attualmente ossessionati dagli utili derivanti dalla circolazione dei titoli finanziari, preferirebbero cimentarsi con investimenti reali tradizionali, se solo potessero. Ma si dà il caso che questi ultimi, a causa delle sovracapacità globali generate dalla logica sistemica, non siano più redditizi. E allora l’unica via di uscita è quella che conduce verso la sovrastruttura finanziaria distaccata dall’economia reale, anche se tale via non è percorribile dalla società nel suo complesso. Rimpiangendo in maniera nostalgica una realtà che non è più oggettivamente possibile, la sedicente critica va incontro a sua volta alla corruzione soggettiva. (Il capitale mondo, p.313)
In altre parole, è giunto il momento di tornare a guardare in faccia il “mostro”, e smetterla di nascondere sotto terra la testa, come gli struzzi. Oggi più che mai, abbiamo un mondo da guadagnare. E anche, aggiungerei, da inventare.
Joe Galaxy
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Note:
1: Ovviamente non si tratta qui di operare una sorta di “colpevolizzazione” alla rovescia dei singoli, che sarebbe speculare a quella tipica dei “complottismi”, incluso quello ufficiale, cioè quello dell’apparato statuale e dei media main stream, capace, per esempio, di incolpare un singolo passeggiatore su una spiaggia deserta di provocare la diffusione di un virus o il singolo individuo perché non avrebbe abbastanza “voglia di lavorare”, peccato capitale per il quale diventa l’unico responsabile dei propri fallimenti esistenziali. Il sistema del capitale, al contrario, è senz’altro un “soggetto automatico”, per riprendere Marx, un apparato impositivo che lavora macchinalmente in una certa direzione, all’interno della quale opera una “muta costrizione” (ancora Marx) a cui nessuno, volente o nolente, sfugge veramente. Tuttavia, tenere presente tutto questo, rendersi conto cioè di vivere all’interno di una sorta di Matrix, come metaforicamente indica il famoso film dei fratelli (poi diventati sorelle) Wachowski, ed essere plasmati da questo è – credo – il presupposto indispensabile per cominciare a capire dove ci troviamo e quali strade provare a percorrere per “rompere l’accerchiamento” e aprire una qualche via d’uscita, non facile da trovare ma neanche impossibile.
2: Come mette meritoriamente in evidenza Silvia Federici nel bel libro Il calibano e la strega, Mimesis, 2020. Qui la Federici tratteggia il passaggio dall’epoca che – a posteriori – è stata definita in senso spregiativo “medioevo” a quella della modernità capitalistica, individuando in questo passaggio non un movimento di continuità, ma una sorta di rottura epocale, da lei ben esemplificata delineando il violento assalto al “femminino” che ha caratterizzato questo determinante momento storico. Per un primo approccio alle tematiche di questo notevole testo, cf. https://anatradivaucanson.it/recensioni/laccumulazione-e-la-donna-storie-di-genere-e-di-oppressione-una-lettura-di-calibano-e-la-strega-di-silvia-federici.