La paura, i “nemici interni” e la mascherina all’aperto

“E lasciamo stare che l’uno cittadino l’altro schifasse, e quasi niuno vicino avesse dell’altro cura, e i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano; era con sì fatto spavento questa tribolazione entrata ne’ petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello l’altro abbandonava, e il zio il nipote, e la sorella il fratello, e spesse volte la donna il suo marito; e, che maggior cosa è e quasi non credibile, li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.

Giovanni Boccaccio, Decameron, I

Le riflessioni che svolgerò qui sotto nascono da una premessa teorica molto semplice: l’idea che portare la mascherina all’aperto, in qualsiasi luogo e situazione, sia una grande idiozia. Contrariamente che nei luoghi chiusi, negli spazi aperti è assolutamente improbabile che venga trasmesso un virus influenzale. Ma andiamo a leggere cosa prevede il DPCM del 3 dicembre 2020, l’ennesimo di una sfilza di decreti surreali e contraddittori, in merito all’uso delle mascherine:

«Ai fini del contenimento della diffusione del virus COVID-19, è fatto obbligo sull’intero territorio nazionale di avere sempre con sé dispositivi di protezione delle vie respiratorie, nonché obbligo di indossarli nei luoghi al chiuso diversi dalle abitazioni private e in tutti i luoghi all’aperto a eccezione dei casi in cui, per le caratteristiche dei luoghi o per le circostanze di fatto, sia garantita in modo continuativo la condizione di isolamento rispetto a persone non conviventi, e comunque con salvezza dei protocolli e delle linee guida anti-contagio previsti per le attività economiche, produttive, amministrative e sociali, nonché delle linee guida per il consumo di cibi e bevande».

Come si può vedere, il decreto non fa riferimento all’obbligo di indossare la mascherina all’aperto, ma solo di averla con sé e indossarla quando non sia garantita la “condizione di isolamento” fra le persone (in altre parole, se uno cammina da solo per strada non è assolutamente tenuto a indossare la mascherina); mentre, invece, nei luoghi chiusi è obbligatorio indossarla sempre e comunque. Qui vorrei discutere però non delle leggi o delle prescrizioni in sé, ma della fruizione di esse da parte degli individui, di come le singole persone possano introiettare norme e prescrizioni. Penso che da più di un anno a questa parte si sia capito, ormai, che il mondo è estremamente governabile attraverso la paura. Basta la paura del virus e tutti, in silenzio, hanno accettato di sottoporsi a restrizioni e limitazioni della propria libertà personale.

In base a una introiezione di norme e decreti scaturiti dall’asserzione dell’estrema pericolosità del virus, la strada è diventata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. In esso possiamo incontrare i più pericolosi nemici della contemporaneità: i passanti che ci vengono incontro lungo la strada. Le varie dinamiche del camminare attraverso le strade della città e la conseguente trasformazione degli individui in “passanti” sono state consegnate alla contemporaneità da un importante retaggio moderno: la città di Baudelaire, dei poeti maledetti, dei flâneurs (i vagabondi cittadini), dell’Uomo della folla di Poe arriva direttamente al Benjamin dei passages parigini e al Debord delle “derive”, una peculiare pratica di vagabondaggio urbano dominato dal caso messo in atto dai situazionisti. Per poi giungere, ulteriormente, fino alla postmodernità e alla contemporaneità (in un momento storico-sociale in cui si è superato anche il postmoderno), manovrata da un ipertrofico capitalismo digitale che, a sua volta, ha provocato una diffusa digitalizzazione dell’esistenza. Il movimento continuo, nello stesso modo in cui esso è presente nella Rete, connota anche l’esistenza quotidiana degli individui. Le città contemporanee sono solcate da sempre più persone in movimento continuo, caratterizzate da una accentuata marca nomadica. L’emergenza Covid, con i vari lockdown e le restrizioni, ha posto un freno a tutto questo. Quando il cittadino ha potuto riconquistare la strada, dopo un lungo abbandono, quest’ultima si è trasformata in un pericoloso territorio solcato da altrettanto pericolosi nemici.

Tutti o pressoché tutti, per strada, indossano la mascherina, per paura. Quella stessa paura che, a partire dal marzo 2020, il potere, per mezzo dei media, ha fatto introiettare dalle menti dei cittadini, mostrando immagini di morte e devastazione provocate dal Covid 19. Da quel momento in poi, la paura e diversi discorsi dominanti si sono imposti nelle coscienze: il virus uccide sempre e comunque, bisogna avere paura ‘per il bene nostro e di tutti’, ‘per il rispetto dei morti’ (come se la colpa dell’eccessiva mortalità per Covid, in Italia, fosse di qualcun altro e non di un sistema politico corrotto e di una sanità allo sfascio). Questi ipocriti discorsi dominanti si sono diffusi fra la popolazione, soprattutto in Italia, un paese funestato da anni di cattolicesimo oscurantista nonché da ogni tipo di credenza nelle religioni o nel soprannaturale. Ma perché tutti o pressoché tutti, per strada, indossano la mascherina? A parte i casi più mentalmente disperati – cioè coloro che la indossano anche mentre vanno in scooter o in bicicletta, mentre si trovano a passeggiare in strade deserte o mentre sono nella loro auto – la indossano perché hanno paura degli altri. Ogni passante è un potenziale nemico.

Quindi, siamo arrivati a una situazione assai diversa dalle dinamiche che stanno alla base della creazione del consueto “capro espiatorio” in tempi di contagio e di pestilenze. Alessandro Manzoni, nei Promessi sposi, affrescando la Milano del Seicento funestata da una epidemia di peste, bene delinea la figura dei cosiddetti “untori”, coloro, cioè, che sarebbero i maligni propagatori della pestilenza. Nella Milano descritta da Manzoni, non tutti i cittadini, indifferentemente, sono considerati come possibili propagatori della peste, ma solo una determinata categoria, gli “untori”, i quali vengono additati come veri e propri capri espiatori. Che gli “untori” fossero considerati potenzialmente dei ‘nemici’, del resto, era già stato confermato da Tucidide quando, nella sua descrizione della peste di Atene del 430 a.C., durante la Guerra del Peloponneso, afferma che i Peloponnesiaci erano stati accusati dagli Ateniesi di inquinare i pozzi e i corsi d’acqua, in modo così da propagare la peste. Adesso, l’assurda credenza popolare che aveva forgiato le figure degli untori, sembra avere indifferentemente ampliato il proprio bersaglio a tutti gli ‘estranei’, venendosi così a creare un clima di paura ‘sanitaria’ nei confronti degli altri che ricorda i comportamenti sociali nella Firenze del 1348 flagellata dalla peste e descritti da Boccaccio nel Decameron. Qualsiasi passante, incrociandosi, si guarda con sospetto e, se uno dei due ha la mascherina abbassata sotto il naso o addirittura non la indossa, può essere vittima di offese e improperi. Gli sguardi delle persone, sopra le mascherine calcate sul volto, sono sempre gli stessi: vuoti, ‘zombificati’ e denotano orrore, paura e sospetto. Se la indossi male o non la indossi, vieni altresì fulminato da un pesante sguardo di rimprovero. La paura, sparsa a piene mani dai media, è perciò stata introiettata a tal punto dalle persone fino a respingere qualsiasi pratica mentale di intelligenza: se i virologi, il CTS, gli scienziati dicono che ci si può infettare anche a due metri all’aperto (cosa che può apparire altamente improbabile a chi non abbia ancora perso l’uso del proprio cervello), allora bisogna indiscutibilmente portare la mascherina. Bisogna avere una fiducia cieca e quasi religiosa: lo dicono gli esperti.

Come accennato, sono fondamentalmente gli estranei a provocare paura e sospetto. Ecco quindi che, alla dinamica del “capro espiatorio” del tipo “dagli all’untore”, si somma quella legata alla “xenofobia”, cioè la paura nei confronti degli stranieri. Il passante è un estraneo, uno sconosciuto che vive fuori dal nostro “nucleo familiare” e quindi potrebbe essere un potenziale malato di Covid. Agli occhi dei passanti, le strade sono piene esclusivamente di malati di Covid. Il tradizionale nemico degli xenofobi, lo straniero, l’immigrato, il migrante, si trasforma adesso in un nemico interno. Non più un immigrato ma un cittadino come te, con i tuoi stessi diritti, un tuo simile ma potenzialmente nemico perché potenzialmente malato e propagatore del morbo. Si tratta, in sostanza, dello “straniero interno” analizzato da Georg Simmel, un diverso che fa già parte del reticolo comunitario, che rimane all’interno dello stesso gruppo sociale o comunque ne fa parte.1 Il passo è breve perché questo “straniero interno” si trasformi in un “nemico interno”, un nemico ancora più terribile perché nascosto e mimetizzato in seno alla stessa comunità: migrante, immigrato, terrorista, omosessuale, fondamentalista, spacciatore, ladro, trafficante, propagatore di virus.

Ecco che allo stato-nazione sovranista e xenofobo si sostituisce il cosiddetto “nucleo familiare” formato dai “congiunti”: al di fuori di esso ci sono solo nemici e potenziali “untori”. È quando si temono e si stigmatizzano i propri simili – creduti come diversi e pericolosi – che si crea il terreno più fertile per la nascita della delazione, fenomeno del resto assai frequente in tempi di Covid. Si è scatenata una vera e propria caccia alle streghe nei confronti di chi ‘esce senza motivo’, di chi invita gli amici a cena mettendo a rischio se stessi e la comunità, di chi non porta la mascherina. Inutile stare adesso a ricordare che la delazione è un sistema presente in tutti i film e i romanzi distopici, a cominciare da 1984 di George Orwell. Interessante qui è ricordare un film di Liliana Cavani del 1970, I cannibali, liberamente ispirato all’Antigone di Sofocle. In una Milano del futuro dominata da una terribile dittatura (che, tra l’altro, individua cavie fra i giovani per sottoporli a esperimenti genetici, tra cui una vera e propria castrazione chimica), che impone di non sotterrare i morti, il personaggio di Antigone, insieme a un misterioso straniero che parla una lingua sconosciuta, lotta per dare sepoltura al proprio fratello malgrado il parere contrario della sua stessa famiglia, plagiata dai messaggi di regime che arrivano dalla televisione. La dittatura, per mezzo di una informazione manovrata dai media, perciò, ha compiuto un vero e proprio lavaggio del cervello della popolazione, controllandoli per mezzo della paura e spingendoli alla delazione. In mezzo alle strade ricoperte di cadaveri, i personaggi telefonano alla polizia o vi si recano di persona per denunciare chi osa seppellire i propri amici e parenti. Ma grazie alla lotta portata avanti da Antigone, un gruppo di giovani unirà le forze per contrastare l’assurdo e crudele potere del regime.

Adesso, sembra proprio che la distopia si sia trasferita nelle nostre strade: basta uscire di casa per incontrare una massa di esseri impauriti che, come macabri zombie mascherati, col volto coperto da mascherine chirurgiche o alla moda, si muovono per le vie cittadine di quel grande ospedale a cielo aperto che è diventata l’Italia. Una distopia che peggiorerà sempre di più e ci porterà sull’orlo del baratro se, come i ribelli del film, non facciamo qualcosa per fermarla e per distruggere la paura imposta dal potere e dai suoi media. Ne va veramente della vita.

Edmond Dantès

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Note:

1: G. Simmel, Sociologia, Edizioni di Comunità, Milano, 1998, pp. 580-581.

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